Non siamo mica gli americani

Non siamo mica gli americani

Stavolta è dall’altra parte dell’acqua, come dice il buon Tonino, che sono finito o forse sarebbe meglio dire dall’altra parte dello schermo. Alvarado, Texas, è stata quella la destinazione presso la quale mi hanno spedito, per lavoro ovviamente. Ho potuto vedere davvero poco di quest’America e del suo sogno che forse non è mai esistito, meno di poco se si pensa quanto essa sia grande e quanti miti, di quelli che anni di telefilm e di Hollywood ci hanno tatuato nel cervello, avrei dovuto assolutamente visitare.

A poco meno di un’ora da Dallas, città ricchissima e famosa per la serie televisiva e per l’assassinio di JFK (e basta), ho lavorato ed ho alloggiato in un motel di quelli che si trovano ovunque negli States, accanto ad un rivenditore enorme di case mobili. Beh l’aggettivo enorme forse è meglio che non cominci ad usarlo in quanto lì tutto è enorme, dall’aereoporto ai bicchieri delle bibite nei fast food che sembrano essere l’unica fonte di vettovagliamento per chi vi approda. La mia innata ricerca dell’Uomo e delle sue abitudini nella quotidianità mi ha spinto, il giorno prima di ripartire, ad andare in cerca di indiani nativi, quelli che hanno sedotto la mia giovinezza tra Doors, sciamani, peyote e rituali dalla trance sublime. Sebbene la maggioranza delle tribù native fossero originarie del Texas, Stato in cui mi trovavo, ho scoperto che in Texas non ci sono riserve e quindi, per dirla in breve, l’unico modo per poterci scambiare qualche parola era guidare per 4 ore ed arrivare in Oklaoma, lo Stato adiacente a Nord

Sembra strano ma quando si nominano gli stati americani non si resta sconcertati come per le altre parti del mondo ma subito riemergono alla memoria scene di film ambientate in un college oppure le figure di quelle buffe mascotte che ballano durante gli intervalli degli incontri di basket o ancora donne in tialleur e uomini in giacca che acciuffano i cattivi analizzando prove nella sezione scientifica del proprio dipartimento federale. Sinceramente a me i cattivi e gli indiani, in questa permanenza, non hanno mai destato turbamenti, cosa che non posso dire invece per le forze dell’ordine, forse perchè temevo che la mia guida europea potesse innescare in loro qualcosa di pericoloso o solo per un mio fondato pregiudizio nella divisa, specie quella americana.

Ad ogni modo ero pronto ad affrontare il mio piccolo “State To State” fino in Oklaoma per andare alla ricerca degli indiani quando, in fabbrica, mi è stato detto che all’estremo nord del Texas, l’indomani, ci sarebbe stato un raduno tribale di indiani e che quindi avrei potuto risparmiare qualche ora. Dotato di navigatore e di ogni informazione utile sono partito alla volta di Springtown, nome già simpatico in quanto simile a quello in cui si svolge la vita degli strani protagonisti della serie di cartoni animati dei Simpson. Un incidente in autostrada mi è costato 1 ora di ritardo sulla tabella di marcia ma ero in netto anticipo e quindi non me ne sono preoccupato più di tanto. Arrivato nei dintorni di Springtown, finalmente, ho cominciato a vedere i pick up mastodontici multiasse che si vedono solo nei film, uno dei quali con un adesivo che comunicava al mondo circostante, credo di circa duemila anime, che suo figlio era un marines. Quando leggi queste cose su una strada a tre corsie size XXL mentre sei fermo ad un semaforo penzolante nel centro di un incrocio, non puoi che accendere una sigaretta, alzare il volume e catapultarti in una puntata di Walker Texas Ranger, sebbene il tuo abbigliamento non sia poi così consono al contesto!

Arrivato a Springtown non vedevo ombra di indiano nè tantomeno uno striscione o una locandina sul vetro di un fast food. NULLA lasciava presagire che nei paragi ci fosse un powwow tribale. Non meravigliatevi se il segno l’avrei voluto trovare in tali testimonianze perchè sono le uniche che potevano coesistere con il paesaggio fatto di asfalto lungo e diritto circondato dal nulla. L’arrivo in città, lì come ad Alvarado e zone limitrofe, è sancito dal “semaforo grande”! Quando si arriva ad un incrocio con più di tre semafori funzionanti su cui c’è piazzato un cartello che indica a quale traiettoria si riferisce, allora si ha la matematica certezza di essere giunti nella downtown! Se al semaforo, oltre alle pompe di benzina (plurale, perchè a volte ce ne sono più di una) ci sono anche supermercati, fast food, negozi di tabacco, di liquori e di abbigliamento country allora si è giunti in un paese abbastanza grande. Non era certamente il caso di Springtown anche se lungo la strada c’era un negozio con la scritta “Guns”.

All’incrocio era quasi tutto chiuso tranne il bar della pompa di benzina. Decisi di andare oltre sperando di trovare qualche segno di indiano, una freccia, una piuma o anche solo un flyer che ne indicasse il luogo esatto, ma non ne ho cavato un ragno dal buco. Nel nulla ho trovato un bar in legno, di quelli in stile Twin Peaks ma con l’aurea della chiesa nella scena del matrimonio in Kill Bill, dove avviene la famosa strage. Ovviamente decido di fermarmi, fosse anche solo per chiedere informazioni ma una volta entrato l’ambiente è “televisivo” ed ipnotico. Ancora legno e toni colorati tutti che virano al verde chiaro, quello demodè molto anni 70. Mi siedo ed ordino da mangiare sperando di poter bere anche una birra visto che per gli indiani è vietato l’alcool e quindi al raduno non ne avrei potuto bere affatto. In effetti, come accade in quasi tutti i fast food e nei bar dove è possibile mangiare. non era possibile bere alcolici, magari avresti potuto comprare una pistola qualche miglio prima ma niente birra!

Mangio carne, ovviamente, e annaffio la gola con una cola light media da circa un litro e mezzo con ghiaccio. C’erano poche persone che si conoscevano tutte e parlavano tra loro. Pian piano arrivavano altre persone che conoscevano quelli già presenti nel bar e si inserivano nei discorsi. In mezz’ora il bar era quasi pieno e tutti parlavano e ridevano tra loro. Ero capitato in uno di quei posti che amo intimamente, di quelli dove tutti conoscono tutti e dove la vita è condivisione e partecipazione reciproca. Era praticamente, immagino, un borgo lucano adattato però alle dimensioni ed alla cartografia americana dove, non essendoci piazza o borgo antico (in quanto di antico non c’è nulla!) tutti si incontrano nel bar. Ho detto nel bar e non in un bar perchè credo che quello successivo si trovasse nel paese successivo.

Dopo aver goduto  nell’ascoltare i fonemi che le loro voci cantavano ho pagato ed ho chiesto alla cassiera se per caso sapesse dove si trovasse Four Winds Park. La signora purtroppo non sapeva dell’esistenza di questo luogo, forse un parco, ed allora è partita l’indagine all’interno del bar. Tutti i tavoli hanno iniziato a consultarsi sul dove fosse questo posto ma le soluzioni erano spesso agli antipodi degli States nelle quattro direzioni cardinali. Sembrava fosse un posto fantasma o un’invenzione fantastica Nessuno conosceva Four Winds Park e nè tantomeno aveva sentito parlare di indiani e del loro raduno. Con una buona dose di coraggio due signori alti, con camicie a quadroni e jeans da boscaioli hanno asserito di conoscere con certezza il posto che stavo cercando indicandomi di tornare indietro per 3 miglia e l’avrei trovato sulla mia destra. Le indicazioni erano generalmente sempre queste, anche quando ad Alvarado avevo chiesto dove poter mangiare, anche perchè altrettanto generalmente si viaggia su strade lunghissime e dritte dove di tanto in tanto ci sono incroci con strade praticamente simili o con sentieri piccolissimi che sembrano essere strade private.

Ho salutato tutto il bar ringraziandoli platealmente per l’impegno profuso ed ho ripensato ai due signori che, sinceramente, a me avevano dato l’impressione di quei serial killer che mentono al primo interrogatorio dopo poche ore che la moglie è scomparsa. Nel parcheggio nessun pick up aveva sacchi neri lunghi e chiusi a salame nel cassone quindi potevo stare tranquillo. Mi sono rimesso in cammino seguendo scrupolosamente le indicazioni dei killers percorrendo fino a 8 miglia ma senza trovare gli indizi che loro mi avevano indicato. Ho nuovamente invertito la rotta e sono ritornato verso il centro di Springtown (il semaforo) per fermarmi al distributore di carburante e chiedere al bar. Al mio ingresso vengo subito notato da un biker di circa 65 anni, con giubotto di jeans, pantalone di pelle, capelli grigi e lunghi e pizzetto lungo un 20 centimetri. Sebbene a mio avviso avesse invertito i materiali degli indumenti mi stava simpatico, se non altro perchè era di bassa statura come noi europei (e come i messicani). Ho chiesto informazioni alla cassiera e lei, non conoscendo Four Winds Park ha indetto nuovamente una riunione all’interno del bar. Ovviamente il mio amico biker aveva capito dove si trovava quel posto non senza averne prima affermato la sua inesistenza geografica. Sebbene poco rassicurato esco dal bar e prendo la stessa direzione da cui ero appena venuto, e seguendo alla lettera le indicazioni del motociclista girando a destra ad un incrocio,  prendo uno di quei sentieri a cui accennavo prima, uno di quelli che avevo sempre visto ma che mai avrei creduto di dover percorrere.

All’interno Il Nuovo Mondo si apre ai miei occhi o meglio, un nuovo film inizia ad essere proiettato sul cristallo anteriore della macchina, un mix tra Edward mani di forbici e X-Files. Case enormi e basse di colori pastello, tutte diverse tra loro, con tende ricamate agli orli e macchine americane anni 60 abbandonate nella campagna intorno all’abitazione, piene di ruggine e con l’erba che le stuprava. Addobbi di halloween e staccionate alte un metro o poco più che non avrebbero tenuto lontano neppure un gatto su cui sono appesi vasi e fiori oppure sono poggiate biciclette. Viottoli fatti con sassolini bianchi nell’erba verdissima costituivano la strada che portava alla porta di ingresso, porta in legno colorata in tinta leggermente più scura di quella della casa. Villette basse con tetto a spiovente e siepi e verde e campagna. Di tanto in tanto qualche enorme fuoristrada monopolizzava la corsia ma per il resto nemmeno l’ombra di un anima né di americano nè tantomeno di indiano. Ho preso qualche volta a destra e qualche altra volta a sinistra, incantandomi nel vedere i paesaggi, le villette, il nulla e le nuvole perdendomi per almeno 4 volte e ripassando dopo più di 1 ora di curve e stradine, davanti alla stessa casa già notata per l’altalena in legno messa fuori dal giardino vicino ad una macchina boteriana degli anni di Marilyn tutta arruginita, con i copertoni neri a bande laterali bianche.

Ormai erano le 15:00 passate ed ero arrivato a Springtown alle 11:30. Alle 14:00 sarebbe iniziato il raduno ma non avevo la più pallida idea se quest’avventura fosse un “dolcetto o scherzetto”, se davvero esisteva questo benedetto Four Winds Park o se la gente del posto davvero non lo conoscesse o si divertiva a mandarmi in visita per il paese perchè aveva percepito che, tutto sommato, a me sarebbe bastato vedere qualcosa di diverso per scattare qualche foto e rimanerne irrimediabilmente affascinato. Non li avrei visti gli indiani e non ci avrei parlato e men che meno avrei chiesto loro cosa ne pensassero del petrolio, dell’uomo, del futuro della Terra, dell’alcool e delle armi, dell’anima e della reincarnazione. Non gli avrei fatto nemmeno un reportage, una foto o che so io uno shooting, nessuno sparo quindi. Ma in fondo l’avevo sempre cantata quella strofa, ad ogni falò: “Non siamo mica glia americani/ che loro possono sparare agli indiani”.

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