Pseudoconcerto Live

Pseudoconcerto Live

Non ricordo bene cosa seguisse a questo prefisso, la Treccani onlain gli attribuisce il significato di FALSO. Anche Ale ed io eravamo giunti alla medesima conclusione, credo entrambi senza aver mai ricercato il vero senso del termine. Ci eravamo arrivati semplicemente toccando l’aria ebete e plasticosa che si respirava su quella terrazza di Cava De’ Tirreni, in un’atmosfera surreale a tratti esilarante ed in molti momenti tragicomica. La mia mente ha voluto rimuovere il nome dell’artista che si era dato in pasto alla ciurma, ma certamente in quell’occasione, magari a sua insaputa, quel piccolo genio stava muovendo sentimenti e riflessioni non di poco conto. Ma sì, forse lui era semplicemente convinto di “suonare caccavelle” come ci aveva detto Ross conoscendo il nostro livello cultural-musicale, attribuendo effettivamente ad ogni suono posto in loop il giusto peso tonico di ogni singola frequenza.

Aria estiva, camicie a righe, petti senza peli, accurate manicure, tacchi e trucchi… molti trucchi (non solo in volto) i segni distintivi della platea accorsa ad assistere. Un silenzio attento, di quelli che si dedicano agli eventi importanti, dove ogni virgola ed ogni respiro può addurre valore a ciò che si comunica. Sul palco lui e sul suo sfondo una sala illuminata di bianco con strutture Modern Art, libri ed incomprensibili opere, di quelle che ci resteresti ora a fissarle sia per capire cosa cazzo fosse realmente e sia per darti un apparente tono da esperto non solo di aver subito capito di cosa si tratti ma anche per incenerire chi ti circonda con la tua finta onniscienza.

Davanti a lui un lungo tavolo stracolmo di mestoli, pentolame, contenitori, bicchieri, ciotole ed oggetti da cucina, di quelli che circondano tutti noi, certo puliti e di sicuro impatto scenico. Questi gli strumenti e gli artefici delle melodie della serata. Un pezzo, quello che più ha colpito Gaetano, era riferito al riso ed erano suoni derivanti dal mescolare del riso in una ciotola di legno. Il titolo diceva tutto, anche quello che avrebbe dovuto dire il pezzo stesso, ma comunque più che il brano a sconcertarmi era sicuramente l’aria e l’attenzione che si era creata su quella terrazza. Appena arrivati, tanto per non raccontare cronologicamente nulla, era in atto un brano con un bollitore messo lì su una piastra elettrica. Inaspettatamente il liquido nel bollitore aveva cominciato a bollire e dal bollitore si levava un fischio, un sublime sibilo di quelli che oggi ho ascoltato circa sei o sette volte qui in turchia quando gli operai si sono preparanati il chay. Bellissimo! Applausi compiti ma scroscianti alla geniale melodia che inebriava di ovvio la penombra della terrazza.

Meglio bere subito qualcosa, di forte possibilmente. Credo sia stato il mio primo pensiero una volta che avevo messo a fuoco il girone in cui mi trovavo. Certo questo genere di pensiero mi viene abbastanza spesso ma credo che in quell’occasione io volessi tentare di restare con i piedi per terra affinchè potessi poi realizzare a posteriori cosa stesse succedendo.  Chiesi quindi al barman di prepararmi un Negroni. Ebbene sì, si trattava proprio di un barman, non si può definirlo diversamente perchè in quel contesto, in quell’aria di paillettes e gel i termini mutano di colpo. Ecco perchè le corde vocali si sono rifiutate di chiedere una birra al barista, sarebbe stato “non consono al contesto” e non so fino a che punto non avrei rischiato l’immediata accensione di tutte le luci della terrazza, la ridicolizzazione pubblica e la relativa espulsione dal clEb in cui mi trovavo. Non che me ne sarebbe fregato tantissimo, conoscendomi, ma proprio non mi andava di perdermi quello spettacolo di anime!

Mentre lui suonava ciotole e pentole, presentando ogni brano con prefazioni esplicative che evidenziavano preoccupanti carenze in matematica di base il mio barman gli faceva da supporter, proprio come accade nei migliori concerti. Il tintinnio delle bottiglie, il suono del ghiaccio che dapprima si scontra con il vetro e successivamente scricchiola sciogliendosi nella miscela di liquidi riuscivano a catturare i miei timpani come mai m’era successo. Le due cannucce, ruotando, lasciavano che i cubetti graffiassero le pareti del bicchiere ed i colori si contraevano e si fondevano tra loro come amanti ubriachi. Ecco: il barman, per quei tre minuti, gli aveva totalmente rubato la scena. Ed in quei tre minuti le mie scarpe si sono riempite di piombo, mentre altre parti di me si riempivano d’altro a mia insaputa, e meditavo seriamente sulla fortuna che in vita mia ho avuto e continuamente ho, di assistere a concerti di quel tipo in cui non ne ho mai apprezzato appieno le pentatoniche.

Il drink era pronto, la gola pure e la mente lo era da prima. Mi giro verso il palco, l’unica parte ben illuminata della terrazza, ed in silenzio osservo la gente, tanta gente eclissata nell’ascoltare suoni pressochè banali, che normalmente ci fanno bestemmiare e che nella vita reale quasi sempre sopprimiamo sul nascere per quanto fastidio danno. In quell’occasione tutto ciò era arte ed ipnotizzava i presenti che alla fine di ogni brano applaudivano compiaciuti percependo apparentemente fino in fondo la genialità di quei suoni, di quell’arte, di quell’uomo!

Ho ascoltato, sentito e guardato lo spazio intorno a me, la monotonia delle figure presenti, la diversità travestita con divise di apparenza, una moltitudine di gente in alta uniforme sociale in silenzio dinanzi ai rumori della vita, di quelli che ogni giorno, con ritmi diversi ogni volta, la vita regala ed a cui quell’esercito mai aveva prestato tanta religiosa attenzione. Credo che se la metà dei presenti avesse ascoltato con un decimo di quella concentrazione, in tutta la sua vita, quanto dice un prete in omelia o un politico in televisione, quanto scrive un giornalista in su una testata nazionale o la grammatica di un calciatore oggi forse vivremmo in un mondo diverso! Ho indagato marginalmente con chi conoscevo dei presenti su cosa stessimo realmente ascoltando, in che genere di evento fossimo di fatto approdati ed Ale, nella sua diplomazia da tanguero, gli attribuì per l’appunto il termine di pseudo xxx, ripeto, non ricordo cosa perchè, appunto, il centro della definizione era proprio il PSEUDO! Ci trovavamo immersi in uno pseudopubblico pseudofelice di pseudoascoltare pseudomusica mostrando pseudodivertimento affermando con pseudaconvinzione di aver pseudocompreso fino in fondo il pseudosenso di quell’arte. Quella NO, l’arte non avrebbe comunque avuto il prefisso in quanto credo che effettivamente ci fosse senso e volontà di comunicare qualcosa che non per forza può raggiungere tutti ma tra tutti e nessuno ce ne passa e credo che in quell’occasione il numero di “raggiunti” si avvicinasse molto di più al nessuno che al tutti… ma forse mi sbaglio: avrà sicuramente raggiunto pseudotutti!

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