40 artisti per ripensare la natura (e l’arte): la mostra al Madre

40 artisti per ripensare la natura (e l’arte): la mostra al Madre

Chissà cosa direbbe la giovane ambientalista Greta Thunberg visitando “Rethinking Nature”, la mostra collettiva che ha inaugurato la nuova stagione espositiva del Museo Madre di Napoli e che si prefigge il complicato ruolo di restituire un affresco di un sistema economico globale, quello dei nostri tempi, in cui la natura è qualcosa da sfruttare, qualcosa a cui non apparteniamo e che è fuori da noi. Attraverso un percorso espositivo articolato e polifonico, la visione imperialistica del mondo occidentale – le cui leggi persistono, sebbene l’assetto economico mondiale sia “ruotato” – è vivisezionata e mostra organi e apparati. Non è un caso che fra gli artisti selezionati ce ne siano molti provenienti dal Sud America e dal Continente africano, territori le cui risorse naturali e i cui popoli sono stati – e in parte sono ancora – stretti nella morsa dei “colonizzatori”.

Con i suoi dipinti e una serie di ceramiche, l’artista argentina Adriana Bustos mostra quanto le scienze naturali europee debbano ai territori conquistati, restituendo una lettura critica e dal forte significato politico riguardo ad assunti che hanno generato e perpetuato fino ai giorni nostri ideologie razziste e xenofobe. Sfruttamento del lavoro e delle risorse spesso coincidono: ciò è evidenziato dall’artista ecuadoriano Adrián Balseca, che catalizza le sue ricerche sullo sviluppo dell’industria della gomma nell’Amazzonia fra l’800 e il ‘900, quando gli europei si resero conto delle potenziali applicazioni dei derivati dell’albero, già utilizzati dalle popolazioni indigene.

Buhlebezwe Siwani – AmaHubo (frame da video-istallazione, 2018)

L’identità negata è al centro della ricerca del sud-africano Buhlebezwe Siwani che racconta, con la sua video installazione AmaHubo, come l’espropriazione della terra vada a pari passo con la soppressione delle pratiche spirituali a cui sono state sottoposte le comunità di antenati, aprendo un occhio sul senso profondo della ritualità e delle tradizioni. Analogamente, la filmmaker Zina Saro-Wiwa utilizza video-istallazioni, fotografie e opere di sound art prodotte nello Stato del Delta, a sud-est della Nigeria, per raccontare il folklore, le maschere tradizionali, le pratiche religiose e l’estetica delle popolazioni locali e testimoniare, attraverso il suo ricercato linguaggio ricco di simboli e metafore, la lotta per la sopravvivenza degli indigeni, in una terra oggetto di sfruttamento da parte delle multinazionali dell’estrazione petrolifera. Non è un caso che l’artista prenda il suo nome d’arte da Ken Saro-Wiwa, intellettuale e portavoce delle rivendicazioni dell’etnia Ogoni a cui apparteneva, assassinato con la complicità del governo proprio per il suo attivismo contro le devastazioni della Shell nella sua terra, il Delta del Niger.

Zina Saro-Wiwa “Did You Know We Taught Them How to Dance?” (fotografia digitale, 2015)

Nel percorso espositivo, alle opere si accostano testimonianze documentaristiche più o meno contemporanee, con la finalità di ampliare la visione personale degli artisti in mostra. È questo il caso di Bestiario de Indias, una raccolta di immagini tratte dai diari e dalle cronache dei coloni europei in Sud America, da cui è poi derivata una rappresentazione mostruosa e grottesca dei popoli e degli animali locali, al fine di sostenere e giustificare eccidi, violenze ed espropri.

Gianfranco Baruchello – Agricola Cornelia S.p.A (foto documentaristica, 1970, Fondazione Baruchello)

Agricola Cornelia S.p.A – esperimento artistico di Gianfranco Baruchello che negli anni ’70 proponeva forme alternative di lavoro non legate allo sfruttamento di uomini e natura –  viene accostato a esperienze analoghe di agricoltura comunitaria su piccola scala, fatte da artisti dei giorni nostri: quella di Fernando García-Dory con INLAND, progetto sviluppato nel nord della Spagna; e di Tabita Rezaire, fondatore di Amakaba, una fattoria di cacao, allevamento di api e giardino di tintura fondato nella foresta amazzonica. Tale iniziative artistiche delineano visoni alternative in risposta a una crisi ecologica che sembra senza via di scampo e che è invece sostituibile con l’affermazione di una presa di coscienza collettiva che miri alla giustizia climatica.

Mentre la comunità scientifica mondiale prospetta scenari da apocalisse a cui i padroni del mondo rispondono con entusiastiche promesse che suonano come l’intenzione di un lunedì di dieta dopo una domenica di abbuffate, il mondo dell’arte esce dagli studi e dai laboratori fornendo prospettive e risposte tanto visionarie quanto concrete. Così gli artisti del terzo millennio tornano a essere quello che erano nella Grecia antica: βάναυσοι (letteralmente banausoi) «Coloro che si guadagnano il pane con il lavoro di mano». “Rethinking Nature” ci spiega come oggi “andare a zappare” sia il gesto più bello, rivoluzionario e artistico che ci sia.

A cura di Kathryn Weir con la curatrice associata Ilaria Conti, la mostra è esposta al terzo piano del Museo Madre ed è visitabile fino al 2 maggio 2022.

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