A 45 anni dalla sua morte, le riflessioni di Pasolini contro l’omologazione sono più attuali che mai

A 45 anni dalla sua morte, le riflessioni di Pasolini contro l’omologazione sono più attuali che mai

Idroscalo di Ostia. Un’auto sgomma via. La mattina dopo gli Italiani aprono gli occhi e leggono il titolo del Corriere della Sera: “Pasolini assassinato a Ostia. L’omicida (17 anni) catturato confessa”. Quella mattina, con il giornale in mano, l’Italia di Amici miei e dell’idrolitina viene svegliata da un cadavere colpito a bastonate, con la cassa toracica fracassata: è il cadavere di Pier Paolo Pasolini. Scriverà Oriana Fallaci: “Dissero che da lontano non sembravi neanche un corpo tanto eri massacrato. Sembravi un mucchio di immondizia e solo dopo che t’ebbero guardato da vicino si accorsero che non eri immondizia, eri un uomo”. L’Italia si trova di fronte al sangue, alla violenza, allo scempio e relega l’omicidio al mondo omosessuale, alle periferie e al degrado. Nonostante l’arresto di Pino Pelosi, che nei lunghi anni in carcere ritratterà continuamente la propria versione, la matrice omofoba del delitto, però, non ha mai convinto nessuno, tanto che la stessa Fallaci portò avanti delle indagini per conto proprio, arrivando all’ipotesi che si trattasse dell’esito di un ricatto. Altri, hanno invece visto nella morte di Pasolini la convergenza di mafia, fascismo ed eversione. Non solo per le accuse di collusione sulle stragi degli anni Settanta che aveva diretto ad alcuni uomini di governo, ma anche perché proprio in quei giorni stava lavorando a Petrolio, il romanzo inchiesta pubblicato postumo sulla morte di Enrico Mattei.

Oriana Fallaci
Enrico Mattei

Pasolini era una figura scomoda, non solo per la sua omosessualità e le sue posizioni politiche, ma perché scavava con ostinazione nelle ferite incancrenite dell’Italia di quegli anni, negli scandali della P2, nelle stragi, nella realtà dimenticata delle borgate romane. Dare scandalo per lui era un diritto che non smetteva di esercitare. Accuse, processi, critiche feroci seguivano l’uscita delle sue fatiche cinematografiche e letterarie. L’ultimo processo, postumo, fu quello a riguardo del film Salò o le 120 giornate di Sodoma, a seguito di una denuncia da parte dell’Associazione nazionale per il buoncostume. Anche la sua morte, quel 2 novembre, diede scandalo.  L’Italia inorridì e si girò dall’altra parte, come continua a fare oggi davanti alle tragedie che ciclicamente accadono, estraniandosi, operando un meccanismo di scissione per non sentirsene responsabile.

Per capire questo meccanismo basta prendere, ad esempio, il tragico episodio di Maria Paola Gaglione, morta in seguito all’aggressione in scooter del fratello, che non accettava la sua relazione con Ciro Migliore, un ragazzo trans. Davanti a questa tragedia l’opinione pubblica ha relegato l’episodio al degrado della periferia, ma a ben vedere questo allontanamento viene operato sistematicamente di fronte a qualsiasi violenza di genere, a prescindere dall’ambiente in cui si consuma. È difficile riconoscere di essere parte di un meccanismo capace di riprodurre al suo interno episodi come questo, ma per evitare che continuino ad accadere è fondamentale riconoscerlo.

Giuseppe Pelosi viene scortato dalla polizia al tribunale dei minori dopo l’accusa di omicidio di Pier Paolo Pasolini, Roma, 1976

Sono passati quarantacinque anni da allora, fatti di processi, testimoni e versioni contrastanti, anni in cui su Pasolini è stato detto e scritto tanto. Anche De Gregori e De Andrè gli hanno dedicato due canzoni importanti – “A Pa’” e “Una storia sbagliata” – e sempre Oriana Fallaci nella sua lettera ha scritto: “Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu”. Infatti, in pochi sono riusciti a farci pensare come ci ha fatto e ci fa pensare Pasolini. Lui è stato tra i primi a metterci in guardia rispetto al rischio di una dittatura imposta non più da quello che era stato il fascismo conosciuto fino ad allora, ma da una sua nuova forma legata direttamente alla civiltà dei consumi, il fascismo dal volto liberale che ormai tutti noi conosciamo e con cui ora ci troviamo a fare i conti, assistendo a rigurgiti totalitari, come l’incetta di consensi raccolta negli ultimi anni dalle nuove destre, non soltanto in Italia, e le derive securitarie che stanno prendendo sempre più piede, non soltanto a destra.

Per capirlo basta rileggere alcune pagine degli Scritti Corsari, la raccolta di scritti pubblicata nel 1975, tra cui rientra in particolare l’articolo comparso sul Corriere della Sera nel dicembre 1973 in cui si legge: “Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è totale e incondizionata”.

Quando viene pubblicato questo articolo la storia della televisione sta muovendo i suoi primi passi verso una diffusione di massa, che negli anni successivi accelererà rapidamente. La televisione – anche per via della pubblicità che diffonde – cambia in fretta gli usi e costumi degli italiani, ne orienta i consumi, segnando l’avvento della nuova cultura del consumo, che contribuirà poi nei decenni successivi a far cambiare volto alla politica. Alla dimensione collettiva dell’era dei partiti si sostituirà infatti una dimensione sempre più individualista. Questa lenta trasformazione darà le basi per una politica basata sulla figura di un leader, sulla sua capacità di essere rassicurante, convincente, telegenico, che troverà forma nel berlusconismo. “Gli Italiani,” scrive Pasolini nello stesso articolo, “hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o meglio, di salvezza della miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?”.

Il “Centro”, come Pasolini chiama il luogo dove viene costruito il modello culturale del potere, all’epoca non ha ancora a sua disposizione strumenti di trasmissione capillari come i social, eppure si scorgono già tutti i segnali di quella dittatura dell’“edonismo di massa” che oggi è sotto gli occhi di tutti. L’esempio più evidente di questo è forse la rincorsa a diventare tutti un influencer. I social e il digitale non hanno fatto altro che amplificare l’avvento del “nuovo modello” di cui ci parlava Pasolini, le cui conseguenze riguardano l’appiattimento del pensiero e il mito acritico del progresso, che lascia indietro tutti coloro che non riescono a stare al passo. Cosa accade se, ad esempio, una pandemia mette in crisi le norme della produzione in vigore fino a ora o se, come scrive Pasolini, i cittadini riescono a realizzare questo modello in misura così povera da diventarne vittime? “Frustrazione o addirittura ansia nevrotica diventano stati d’animo collettivi” è ciò che osserva come risposta alla dittatura dell’edonismo di massa, su cui scriverà poco dopo: “Questo Potere ha anche ‘omologato’ culturalmente l’Italia: si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’edonismo e la joie de vivre […] Il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione brutalmente totalitaria del mondo”. Si pensi a questo proposito al Trumpismo promosso da Salvini e Meloni, a come gli anni recenti della politica siano stati caratterizzati da un allineamento a destra che ha visto nei migranti e in tutti i soggetti non conformi il nemico, la causa di tutti i mali. Eppure neanche questo basta ancora per capire a fondo il valore profetico del lavoro di questo intellettuale.

Emblematica è l’ultima intervista rilasciata da Pasolini a Furio Colombo, poche ore prima di essere brutalmente ucciso. A un certo punto dice: “Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori”. Poche ore dopo Pasolini è stato “fatto fuori” per davvero e sul movente di quell’omicidio ci sono pagine di piste e ipotesi che lo legano a un complotto, al romanzo Petrolio, alla morte di Enrico Mattei e a vicende poco limpide dell’Eni, pagine nascoste della nostra storia, a riprova del fatto che i complotti degli anni Settanta sono ben diversi dai complottisti fantasiosi di oggi, ormai parodie assurde e nevrotiche, fondate sul nulla, che invece di fare chiarezza confondono ancora di più la verità. In queste poche parole Pasolini svela già la funzione a cui assolve il complottismo: la deresponsabilizzazione. Credere che la storia sia altra, che le decisioni vengano prese in una cantina sotterranea a cui per noi è vietato l’accesso, vuol dire liberarci dal peso di poter intervenire in prima persona su quella storia. L’aspetto sintomatico del complottismo è il fatto stesso che, in un periodo come quello di oggi in cui fioriscono le teorie del complotto e ognuno si sente in grado di svelarle tramite un semplice accesso a Internet, si riducono paradossalmente gli spazi della partecipazione democratica, come ci ha dimostrato il referendum sul taglio dei parlamentari.

In Lettere luterane Pasolini ha scritto che bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile, riuscendo a fotografare ancora una volta l’Italia, un’Italia che sotto questo aspetto non sembra essere cambiata. Pasolini ha scavato nel suo pudore, affondando nelle difese della sensibilità borghese. In Comizi d’amore, per fare un esempio, dieci anni prima del referendum sul divorzio su cui la morale borghese sarà costretta a interrogarsi profondamente, ha mostrato la crepa che iniziava ad aprirsi tra la facciata e il più profondo sentire su temi come la sessualità e la parità di genere. Penna o microfono alla mano ha messo davanti agli Italiani uno specchio, in cui riflessa non si vedeva altro che la loro stessa immagine.

Comizi d’amore (1964)

Pasolini ha dato scandalo e ha rivendicato il diritto a scandalizzare, ma la sua vera capacità sovversiva è stata l’aver scandagliato la nostra morale al punto da mostrarne gli aspetti più nascosti e orribili. Come un Narciso degli anni di piombo, l’Italia si è specchiata nell’acqua torbida delle sue opere e ciò che ha visto è stato così tremendo da non volerlo vedere mai più. Forse, allora, per comprendere i tempi che stiamo vivendo, potremmo smettere di far finta di non vedere le storie dei migranti (a meno che non si trasformino in tragedia), sovranismi e populismi, soprusi – più o meno evidenti – su donne, neri, persone LGBTQ+ o con disabilità – solo per citare alcune delle storture a cui la nostra società ci ha assuefatti. Invece che allontanarle, dovremmo impegnarci a risolverle, perché anche se non ci toccano direttamente ci riguardano. Rileggere Pasolini oggi vuol dire innanzitutto accogliere la responsabilità collettiva invece di scrollarcela di dosso, sentire l’amore per quella parola che ormai ci sembra ideologica e astratta: “popolo”.

L’eredità che ci ha lasciato è poi sintetizzata alla perfezione in una frase del discorso che avrebbe dovuto pronunciare al quindicesimo congresso del Partito Radicale: “Continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”.

L’articolo A 45 anni dalla sua morte, le riflessioni di Pasolini contro l’omologazione sono più attuali che mai proviene da The Vision.

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