Di solito, in questa antologia si ripropongono servizi dedicati ai tanti e più differenti luoghi  dell’abitare. In realtà, Casa Vogue ha da sempre cercato di andare alle “origini” di detti luoghi pubblicando dunque contributi, pensieri e testimonianze di chi li pensa, li immagina e a volte anche li decora per noi. Ecco perché oggi, prendendo spunto come sempre da una serie di  circostanze attuali che sono spiegate subito qui sotto, lasciamo la parola a Nathalie Du Pasquier, un’autrice che senza troppi clamori segna da una quarantina d’anni il design e l’arte, costruendo un suo percorso originale che la rende un caso quantomeno singolare nel panorama. Uscita nell’aprile 2019 questa intervista-ritratto realizzata da Mariuccia Casadio è perfetta per tratteggiare l’opera e la figura dell’artista francese. Le occasioni, dicevamo, sono molteplici: in ordine cronologico si comincia con l’anniversario dell’esordio di Memphis giusto 40 anni fa; segue poi la grande mostra che l’artista ha appena concluso al MACRO di  Roma; e si concludono, per ora, con la presentazione nel Campus Vitra a Weil am Rhein, della grande scultura Torre Numero Due, collocata nei pressi della Fire Station di Zaha Hadid. L’opera, spiega il comunicato,«è parte di un’edizione limitata creata nel 2020 da Nathalie Du Pasquier per la mostra BRIC dell’azienda di ceramiche italiana Mutina (per la quale l’artista ha firmato una bella collezione, ndr). Il punto di partenza della struttura sono i mattoni – da tempo immemorabile elemento architettonico fondamentale e un motivo ricorrente per l’artista negli ultimi anni, anche nella sua opera pittorica». Va anche aggiunto che sempre al Campus Vitra è allestita fino a gennaio 2022 la mostra Memphis. 40 Years of Kitsch and Elegance in cui sono visibili i primi lavori dell’artista mobili, tessuti, disegni di moda e gioielli. Non ultimo, da vedere sempre, per cui non siete obbligati ad andare ora con il calduccio che fa, c’è l’intervento di Nathalie Du Pasquier sulla facciata di Assab One, a Milano. (Paolo Lavezzari)

«Memphis ha fatto la fortuna della mia vita lavorativa, ma potrei anche dire della mia vita. Io sono nata lì e avevo 23 anni». Chiederle degli esordi è inevitabile, perché oltre a essere stata fondante (appartiene al nucleo storico del gruppo), l’esperienza di Memphis ha senz’altro liberato e formato la passione di Nathalie Du Pasquier per la pratica totalizzante del disegno. La sua visionarietà singolare, ibrida, nella quale l’architettura, il design e il decoro diventano arte, risorse infinite di spunti formali, pattern, figure, oggetti, particolari e dettagli domestici da rivisitare e da reinventare, alterare e dilatare di scala, rappresentare a tinte vivaci, trasformare in una ludica singolare e segnaletica machinerie. O in una natura morta, altrimenti, del XXI secolo. Un soggetto, un tema, uno scorcio quotidiano tradotto in chiave sui generis, inconfondibilmente “Du Pasquier”, che può declinarsi in opere a due o a tre dimensioni, dipinto su tele che non superano mai di molto il metro per lato, perché, spiega lei con un sorriso, «restano più facili da trasportare». Ma anche intessuto nella trama di un tappeto, iterato nella stampa di una carta da parati, raffigurato in ceramica. E così da comporre un fluido interattivo, ambientale intreccio di segni e disegni, motivi e moduli, tecniche, texture e cromie. Un approccio visionario, creativo, libero dall’onere di committenze che, proprio a partire dall’incontro con Memphis nel 1981, di Nathalie ha espresso e definito lo stile. La progettualità aperta, interdisciplinare, che le consente di «inventare delle situazioni estetiche, dei pattern, delle forme e delle cose che prima non esistevano». E le offre per di più la possibilità, come spiega lei, di «poterlo fare senza esigenze particolari, né tanti soldi, con materiali molto semplici e senza che nessuno te lo chieda».                           

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Nathalie Du Pasquier, 1982 circa, foto courtesy Ugo Colombo.

Ciò che nei primi Ottanta, dal design di mobili e tessuti a quello di abiti, gioielli, compendi e dettagli d’arredo, ha definito il suo contributo alla storia del gruppo più celebre del design postmoderno, è confluito infatti, da oltre trent’anni, in una pratica artistica sempre più esclusiva. Un instancabile inesauribile fantasticare sulle cose che ci circondano, che rispecchia come una goccia d’acqua questa francese generazione 1957, con lo sguardo azzurro, i capelli grigi a caschetto, la carnagione chiarissima e il sorriso segnato dal tempo di una bambina. Che considera il lavoro come «una specie di fiume che va, continua a evolversi a seconda di quello che vedo, delle persone incontrate, dei libri letti, delle esperienze degli altri, dell’accumulo delle cose già fatte e di come si combinano fra loro». Un flusso che il suo studio milanese, prima ancora delle gallerie e delle molte personali da lei realizzate in ogni parte del mondo, raccoglie e restituisce. «La mia vita è lo studio e anche quella di George», racconta parlando di sé e del compagno di una vita Sowden (77 anni), che lavora nello spazio a fianco. 

Torre Numero Due, appena installata nel Vitra Campus, a Weil am Rhein.

«Cerco di lavorare regolarmente, di dipingere tutti i giorni e quando si prospetta una mostra si fa un editing di quello che c’è. Non desidero possedere cose in particolare; il lusso sono lo spazio e la luce, e abbiamo la fortuna di avere ambedue». È vero. L’ambiente arioso risulta pieno di luce e di lavoro che, dal bellissimo prototipo datato 1981 della sedia Primula di Sowden, alle tre tele di Du Pasquier ancora in via di realizzazione, che lei introduce con un veloce «quello che sto facendo adesso», porta le tracce di una pratica artistica che sconfina nel vissuto. Un unicum circolare quasi zen, ricco di concentrazione e di quiete, di ricerca e di continuità, con le nuance di materiali forme momenti irriproducibili. È uno studio silenzioso e protettivo, che seduce e intimidisce con la sua massima essenzialità e riservatezza. «Mi sono resa conto che si può riempire la vita con un progetto che non finisce mai, che la vita è questo progetto che continuerà a evolversi fino alla fine. L’ho intuito negli anni di Memphis, a contatto con George e con altre persone incontrate attorno al “mondo del design”. Non ho mai sognato di lavorare in gruppo, anche allora ognuno era per conto suo, erano l’occhio di Ettore Sottsass e di Barbara Radice, le mostre, a metterci insieme. Con George è diverso. Intanto mi ha indicato un modo di vedere la vita, un modo che inoltre vive e condivide con me. E a volte abbiamo anche lavorato insieme, ma soprattutto accanto. La nostra complicità si esplicita meglio nelle conversazioni su quello che ognuno di noi fa, sullo sguardo e i commenti sui lavori di ognuno, ed è anche più semplice perché operiamo in ambiti diversi, George è un designer e io una pittrice, ma ho la sensazione che siamo un’entità, la risultante di due personalità a contatto da tanti anni… e che, quando capita, le nostre cose stiano bene insieme».