Nuova puntata del tour tra gli articoli “alpini” apparsi su Casa Vogue. Questa volta lasciamo l’Europa per volare letteralmente dall’altra parte del mondo, sulla Cordigliera andina, dove tutto ha dimensioni gigantesche, ancor più se confrontate con quelle delle nostre valli. Non a caso i leggendari Patagones erano una favolosa quanto inesistente stirpe di giganti. Finiamo così nella San Carlos de Bariloche degli anni Trenta e Quaranta che si stava preparando a diventare il centro del turismo montano per le élite argentine e non solo, complice anche una natura, panorami, vette, boschi e laghi dai caratteri assolutamente alpini – un ottimo richiamo per gli emigrati mitteleuropei (e bellunesi) che vi stavano facendo fortuna. Fra i tanti, c’era anche un francese, Jean-Michel Frank, in fuga dalla guerra e dalle persecuzioni. Una storia tormentata la sua, come leggerete, che fa un singolare contrasto con la bellezza del luogo dove tuttora sorge l’hotel di cui realizzò gli interni: una collina verde che guarda una infilata di laghi. Come dire, un panorama e rappacificante che fa credere che nulla possa andare male. L’articolo venne pubblicato su Casa Vogue nel dicembre 2002. (Paolo Lavezzari)
Quando nel 1934 l’architetto argentino Alejandro Bustillo (1889-1982) vinse il concorso per la realizzazione dell’unico grand hotel del cono sud (Cile, Argentina e Uruguay) in mezzo alla Cordigliera delle Ande, la piccola città di Bariloche – “La ciudad de los Cesares” dove si arenavano i sogni dei visionari e precursori che avevano tentato la conquista della Patagonia – si profilava come l’enclave e insieme la mecca dell’alta borghesia e dell’aristocrazia argentina. Il suo sviluppo progrediva incessante grazie alla grinta e all’entusiasmo degli immigrati del nord e del centro Europa, che avevano lasciato i propri paesi per ritrovarsi fra le cime innevate e i laghi di questo remoto angolo di mondo. Animati dallo stesso spirito romantico degli artefici del parco di Yellowstone fondato nel 1872, gli argentini creavano le proprie leggi e i propri parchi nazionali per salvaguardare quelle terre appena esplorate.
Un grande rifugio di montagna di 1750 metri quadrati, con cento stanze, uno stile rustico ed essenziale, una pianta a U e due ali identiche attorno a uno spazio centrale disposto sul terreno, sembrava coronare tutti i loro sogni. E ancora oggi domina lo scenario, appena fuori il disordinato sviluppo della cittadina. La grande struttura di pietra e legno con il tetto in tasselli di larice come ancora si usa per tutte le costruzioni del Cile meridionale, perfettamente mimetizzata con la montagna, fu costruita da migliaia di operai che lavorarono incessantemente per mesi. Internamente, l’hotel di Bariloche venne pensato come una grande “estancia”, un luogo cioè dove ricevere amici, diviso tra enormi ambienti comuni e piccole stanze con uno stile molto rustico.
Ogni camera venne concepita come un minuscolo rifugio in mezzo alla natura, e fornita soltanto del minimo indispensabile. Per non interrompere l’imponente vista sul lago Nahuel Huapi che si godeva dalla sala da pranzo a doppia altezza con tanto di palco per l’orchestra, Bustillo fece in modo che la collina attorno all’hotel venisse abbassata di un metro. In breve tempo, il grande sogno sudamericano venne completato. Nel frattempo, in Europa scoppiava la guerra, e un ometto dalla pelle olivastra, perseguitato come ebreo e omosessuale, inquieto e affabile giungeva a Buenos Aires per sfuggire alla furia nazista, e per andare a vivere in totale anonimato in un appartamento riservato agli impiegati della fabbrica Comte, un’azienda che negli anni Trenta assumeva disegnatori locali ed europei per realizzare mobili e oggetti d’arredamento moderni legati all’industria argentina del legno. Il personaggio in questione era Jean-Michel Frank (1894-1941), che per vent’anni aveva svolto un ruolo straordinario nel fissare i gusti dell’epoca e interpretato come nessun altro le aspirazioni ideali ed estetiche della generazione che si era venuta imponendo dopo il primo conflitto mondiale. Amico dei surrealisti, di Salvador Dalí – autore del divano di raso dorato con la forma della bocca di Mae West, che realizzò con lui per la sala della musica del Barone di L’Epee – ma anche di Picasso, Giacometti e tanti altri, Frank aveva preso parte a tutti i movimenti d’avanguardia e applicava l’ascetismo e il rigore in ambito mondano, accostandoli al lusso e agli oggetti preziosi. Insieme ad Adolphe Chanaux, suo socio, elogiava la semplicità delle forme che compensava con la qualità dei materiali, sempre assolutamente preziosi, come la vacchetta cucita a mano, la pergamena, la paglia. I suoi disegni, esposti nel negozio in rue de la Boetie, finivano appesi nelle case degli aristocratici o degli artisti che iniziavano a voltare le spalle a un passato e a un’epoca ricca, densa e ormai quasi fuori moda. Le donne che vestivano Chanel e si accorciavano le gonne si identificavano con lo stile di Jean-Michel, che, nonostante il destino tragico, era riuscito a conquistare Parigi e il mondo con il suo fascino e la sua genialità. Finché la guerra, ed è storia comune a molti, pose fine alle sue attività in Europa. A partire da quel momento ha inizio il periodo meno noto e più controverso della sua carriera. Mentre l’arredatore avviava una collaborazione con la Comte, fu proprio a questa che l’Hotel Llao Llao, appena inaugurato, chiese di occuparsi dell’arredamento. Venne proposta una linea di mobili rustici, solidi e ben disegnati, privi di inutili orpelli.
Fu a questo punto che intervenne Frank, il quale contribuì con le sue idee in termini di design e costruzione, riproducendo alcuni dei suoi modelli con l’impiego di materiali del posto e il lavoro di artigiani argentini. In pratica non fece altro che modernizzare e semplificare i progetti classici francesi e inglesi per adattarli al gusto della società locale. Fedele al suo rigore formale e alla ricercatezza dei finissaggi, Frank trovò nei nuovi materiali che ebbe a disposizione in Argentina una profonda ispirazione, stimolata per di più dalla conoscenza della cultura contadina e dei gauchos alla quale venne introdotto da Bustillo, che ne era un raffinato conoscitore. Ciò che ne sortì fu un arredamento in cui la semplicità della tradizione popolare assurgeva alla purezza della classicità senza tempo. Ecco dunque, nei bow-windows, le classiche panchette di Frank con le gambe incrociate, ma tappezzate con cuoio crudo, materiale tipicamente gaucho che Frank utilizzò anche per le strutture dei letti di faggio e come elemento di tensione delle sedute.
E se da un lato gli ampi divani, le poltrone “elefante” nel living e le panchette matelassées sono un altro marchio di fabbrica di Frank, le loro rifiniture con fasce di ferro e ancora cuoio rimandano immediatamente alle bardature e alle staffe dei cavalieri della pampa. Si rifiutò tuttavia sempre di firmare i suoi lavori, stando almeno alle parole della signora Arauz, titolare della Comte (che oggi non esiste più) e famosa disegnatrice di interni, quasi a voler dissipare qualsiasi dubbio sul lavoro svolto in Argentina. Alcuni anni più tardi, quando gli studiosi e i conoscitori di Frank scoprirono quella che fino ad allora era stata una collaborazione segreta con l’architetto Bustillo per la realizzazione dei mobili dell’Hotel Llao Llao, ebbero inizio le ricerche, che suscitarono non poche polemiche e discussioni. Diversi viaggi a Bariloche e complicati studi permisero agli esperti di rintracciare alcuni dei pochi mobili sopravvissuti all’incendio che aveva distrutto l’hotel poco dopo la sua inaugurazione (fu subito ricostruito, anche se con alcune differenze). Parte degli arredi vennero ritrovati nella povertà delle case degli ex dipendenti dell’albergo, e si giunse alla conclusione che gli argentini non erano allineati al gusto e alla fama di Frank.
Dopo la breve avventura in Argentina, dove i suoi mobili non riuscirono mai ad attirare l’attenzione del pubblico – a eccezione di pochissimi, fra cui l’imprenditore Born che, già prima che arrivasse in Argentina, gli aveva commissionato l’intero arredamento della casa, situata in un quartiere residenziale appena fuori Buenos Aires – e da dove fuggì all’improvviso, Frank lavorò per qualche tempo a Manhattan, fino a quando si tolse la vita, nel 1941, a 46 anni. Delle sue opere rimane ben poco, anche se le sue idee risultano moderne oggi come allora. Forse sono proprio le parole pronunciate da Cecil Beaton nel 1954, a descrivere nel modo migliore il suo lavoro: «Se Frank fosse vivo, sarebbe ancora l’architetto per interni del futuro… e sicuramente sarebbe stato lui ad arredare la sede delle Nazioni Unite».