Quante storie si incrociarono in piazza Santo Stefano, quell’ottobre di 49 anni fa. Tutto comincia con delle misure, quelle dei diecimila piastrelloni che per 5 giorni inventarono nel cuore di Bologna un curioso ecosistema a tempo in cui industria, arte e una certa forma di “natura” dialogarono con la città. Le misure, dunque: erano quelle della copertina di un ellepì, 33 centimetri per 33. E l’immagine – una foto scattata da Fabio Simion a una zolla di terra – sarà la stessa che, giusto un paio di mesi dopo, sarebbe apparsa sulla cover di un 33 giri (la cifra ritorna), nello specifico, “Pollution”, il secondo lavoro di Franco Battiato. “Pollution” era prima di tutto, a ottobre, il nome dell’operazione che aveva disseminato nella piazza piastrelle e opere d’arte. A dirigere l’avvenimento, mix di contro-cultura e business, erano stati Gianni Sassi e Sergio Albergoni il quale ne scrisse per Casa Vogue il ricordo, vale a dire l’articolo pubblicato nell’ottobre 2011. Terzo moschettiere con Sassi e Albergoni era Gianni Ummarino, il fotografo che documentò l’evento bolognese, oltre ad avere realizzato le cover di vari dischi degli Area, gruppo che faceva parte dell’etichetta Cramps Records di Sassi e Albergoni (idem Battiato). Quest’ultimo, per rendere l’intreccio più intricato, era anche coautore con il musicista siciliano dei testi del disco “Pollution”. Per cercare di non dimenticare nulla va anche detto che in quell’ottobre Battiato tenne anche un concerto in una galleria bolognese. Era il Battiato sperimentatore; quello che poi canterà “La musica contemporanea mi butta giù” verrà solo nel 1980.  Bene, buona lettura, allora. Preparatevi a tornare in un 1972 carico di ironia e di creativa voglia di sperimentare. La stessa che animava le ricerche e le utopie dei gruppi di architettura radicale.  Le diecimila piastrelle erano una grande multiplo d’artista, ché erano tutte numerate e firmate. (Paolo Lavezzari)

Gianni Sassi, ideatore dell’evento “Pollution”, minacciato con un “Sasso” in poliuretano di Piero Gilardi. Foto courtesy Gianni Ummarino.

Si dice che Bologna sia pacifica e godereccia, e uno spazio come piazza S.Stefano interpreta al meglio il “si dice”. Un triangolo non troppo grande, con i lati in gara di bellezza ed equilibrio tra storia e contemporaneità. Una piazza in porfido posato con sapienza prospettica, chiusa al traffico in un’epoca in cui a Roma si andava ancora in auto in piazza San Pietro. Arrivati sotto le due Torri, prima di imboccare Strada Maggiore, si gira a destra, si sfila davanti al ristorante Pappagallo, si supera un capriccioso ghirigoro e, sullo sfondo, appare la chiesa che dà il nome alla piazza, incastonata tra altre tre chiese e cimeli religiosi. «Qui?», domandò Gianni Sassi; «Qui», fu la risposta. Quelli della Iris Ceramica erano modenesi di provincia, di Fiorano, tra Maranello e Sassuolo, senza i fasti cavalcanti di Maranello o la notorietà del distretto che a tutti gli italiani ricordava la ricostruzione post-bellica, Sassuolo, appunto, con le sue ceramiche da pavimento e rivestimento a buon prezzo, dagli aggressivi colori pastello che spaziavano dal verdino al rosino, dal bianco sporco al panna.

Per loro, i modenesi, far notizia a Bologna, magari con un titolo su “Il Resto del Carlino” nelle pagine dedicate al capoluogo, avrebbe avuto il sapore della conquista. Avevano incaricato l’agenzia Al.sa di Milano (di Gianni Sassi e Sergio Albergoni, ndr) di elaborare un piano pluriennale per l’accreditamento dell’immagine di quel progetto imprenditoriale che sarebbe divenuto un colosso industriale a livello europeo, secondo solo a Villeroy & Boch. Ma nessuno ancora lo sapeva. Erano anni in cui le autorità temevano tutto ciò che si svolgeva in ambiente urbano, nei cuori angusti delle città, dove era più facile trovare una via di fuga che una via dove far passare mezzi e uomini per la prevenzione. All’arte si associava la figura dell’artista, per status insofferente a limiti e regole. 

La cover del catalogo che accompagnava l’evento.

E l’insofferenza, in quell’ottobre 1972, spesso aveva il profilo della rivolta, anche violenta. Ciò che poi stava nascendo in piazza S.Stefano era un evento artistico con una forte connotazione polemica fin dal titolo, “Pollution, per una nuova estetica dell’inquinamento”, perché parlare di inquinamento in quella stagione già significava mettersi contro le regole costituite e condivise. Di più: il progetto prevedeva la posa sull’intera superficie della piazza di piastrelloni da trentatré centimetri di lato, senza, ovviamente, renderli solidali con la pavimentazione sottostante, se non tramite un debole, innocuo biadesivo. Oltre mille metri quadrati coperti da diecimila piastrelle, facilmente asportabili, rappresentavano altrettante ragioni per negare il permesso di occupazione della piazza. Diecimila potenziali proiettili che, frantumati in pezzi più piccoli, avrebbero potuto dar vita a ore di guerriglia urbana. La signora Cesarina, ammiccante dalla porta della sua storica trattoria, sembrava divertirsi molto. E dire che ne aveva viste di tutti i colori da quel suo localino, a due passi da una delle università più calde d’Italia e da piazza Maggiore e via Ugo Bassi, storici luoghi di assembramento e di conclusione di ogni manifestazione. «Mi conoscono tutti, conosco tutti. Lo so solo io quante teglie di lasagne ho messo fuori dalla porta per quei ragazzi». 

La piazza Santo Stefano, a Bologna, con le opere installate. Foto courtesy Gianni Ummarino.

A lei quell’idea piaceva, sia per le piastrelle che riproducevano all’infinito la stessa zolla di terra – «sono nata in campagna, io» – sia per gli artisti che le avrebbero popolate per un’intera settimana. Sotto sotto, ma non lo ammise mai, pensava che qualcuno degli artisti o del pubblico un saltino ad assaggiare «le lasagne più buone di Bologna» l’avrebbe fatto. Magari in tanti. Pier Luigi Cervellati, famoso assessore all’urbanistica del Comune di Bologna e non solo, aveva voluto sapere tutto: dai committenti alle ragioni promozionali, dalle motivazioni ecologiche ai nomi degli artisti. Lecito e accontentato. Autorizzati e contenti progettisti, organizzatori, artisti. 

La piazza durante l’installazione dei lavori. Foto courtesy Gianni Ummarino.

Racconta il pittore Concetto Pozzati in un intervento critico (ospitato in catalogo) a proposito dell’evento in fieri: «La “cultura” vende di più. Al grande stand di piazza Santo Stefano si espone “storia”, ceramica, natura, arte e falsa ideologia. L’arte reclamizza». E continua: «L’idea iniziale di riportare la piazza a una virtuale sembianza primigenia attraverso un’operazione regressiva-artigianale-naturale che contaminasse l’attuale luogo mi aveva incuriosito. Una grande, artificiale natura (ceramicata); un falso più vero del vero; un doppio naturale; un’interpretazione critica del naturale; un’autocritica della natura; una verifica collettiva della realtà del falso. Mi dicono che la rassegna en plein air avrà un titolo: “Pollution”. Non è certo attraverso l’esaltazione estetica dell’inquinamento che si supera la corruzione e l’infezione». Ma non era quello di Pozzati il pensiero dominante. La vera padrona su quella grande palladiana di finta terra rossastra era l’esasperazione della finzione come critica alla distrazione interessata intorno alla questione ecologica. L’arte nuda si esponeva in campo aperto, incomprensibile e disponibile, tiranna e sbeffeggiata, domanda e non risposta, per convincere un piccolo popolo di visitatori a interrogarsi sulla forma del futuro. È anche vero che sotto i piedi di quel piccolo popolo c’era il prodotto di un’azienda, forse non così incolpevole. 

Foto courtesy Fabio Simion.