Quando l’articolo che qui è riproposto uscì, nell’ottobre 2012, le vacanze erano ormai finite. A distanza di anni, il tema della vacanza, e ancor più del viaggio all’estero, non si è però esaurito, anzi. Basta la cronaca quotidiana per confermare il contrario: alberghi chiusi-alberghi aperti; certificati, blocchi agli aeroporti: ma sapete e leggete già tutto. Ci  piace qui allora riportarvi a una delle mete preferite di tanti italiani, le meravigliose coste della Croazia, paradiso di velisti e diportisti in genere, ma anche compound dove si trova un bel catalogo di architetture di vacanza, se non lussuosi hotel, destinati alla working class jugoslava. È turismo nazional-popolare, come quello che si può permettere il 98 per cento di noi, che però non significa scadente, il contrario. Fenomenologia sociale a parte, a noi interessa il discorso architettonico e quindi una riflessione sui perché di quel fenomeno “modernista sulla spiaggia”. L’articolo, come vedrete, prende spunto da una delle prime mostre dedicate agli autori e ai progetti. In questi anni, giustamente, il tema è stato poi più volte approfondito inserendolo in una corretta ottica internazionale. Il caso rimane comunque con una sua sorprendente peculiarità (che l’articolo fa bene notare). Perché quella che per noi “di qua dal mare” poteva sembrare un’utopia veniva invece realizzata con budget e risultati importanti. E a vederli oggi viene automatico il confronto con quanto si può vedere sulle nostre coste adriatiche. Tutti al mare, etc etc. (Paolo Lavezzari)  

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Per Maroje Mrduljaš, curatore della mostra d’architettura “Unfinished Modernisations. Between Utopia and Pragmatism”, tenutasi a primavera alla Maribor Art Gallery, in Slovenia, il fatto che la scena artistica croata da metà degli anni Cinquanta alla metà dei Settanta sia per lo più sconosciuta dipende dall’oscuramento attuato dalla cultura dominante anglosassone, od occidentale, su quanto accadeva oltrecortina. «È un periodo accantonato acriticamente. Invece, la creatività croata era allora al suo apice, con la sperimentazione dell’arte totale basata sui concetti della neo-avanguardia». Concetti che per Mrduljaš, critico di design, redattore della rivista “Oris” e autore di numerosi libri, fra cui il prossimo “Modernism in-Between. The Mediatory Architectures of Socialist Jugoslavia” (per Jovis, Berlino), consentirono «ai migliori architetti croati di operare a tutto tondo, sia progettando edifici pubblici, sia disegnando architetture d’interni per alberghi». Grandi strutture sorte sulla costa, quando la ex Jugoslavia, a metà fra i Sessanta e i Settanta, divenne crocevia fra Est e Ovest. 

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«I migliori architetti non esitarono a progettare hotel di lusso, avendo così l’opportunità di sperimentare l’arte totale, spaziando dal design di arredi su misura all’architettura e, soprattutto, all’urbanistica». Sono interni che, agli occhi di un Occidente dove le utopie sono rimaste tali, evocano scenari vintage e insieme futuristici. Al di là della Cortina di ferro, invece, «con la grande apertura della Jugoslavia, il turismo – e con esso il sistema alberghiero – dovette diventare competitivo ed essere in grado di soddisfare esigenze diverse, dalle più modeste alle più lussuose. 

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Certo, il design d’interni più ambizioso fu riservato agli hotel più esclusivi, ma anche le strutture di standard medio-basso si avvalsero di eminenti personalità, che operarono secondo puri principi di modernità», i quali, incredibilmente, si conciliavano con scopi commerciali. «Paradossalmente, i principi utopici del design totale, cioè la sperimentazione quale via per migliorare il vivere sociale, trovarono terreno fertile nel turismo grazie ai budget più alti rispetto ad altri programmi sociali, come le abitazioni». Per Mrduljaš, la differenza con esperimenti si­mili in Occidente, come il Sas Hotel di Arne Jacobsen a Copenhagen, sta nel fatto che, mentre lì si trattò di casi ecce­zionali, in Croazia, ma anche in Bulgaria o Romania, 
la spe­rimentazione fu il modus operandi standard in architettura, design e urbanistica. 

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«Un’altra differenza è che i progetti non venivano discussi dagli investitori. I designer erano liberi e rispettati anche in queste operazioni commerciali, se rimanevano nel budget». Una libertà su cui si fondò un’élite di artisti, architetti e designer che procedeva in sintonia con le istituzioni. Fra questi: «Boris Magaš – suo lo stadio di cal­cio Poljud a Split e due bellissimi resort, Solaris e Haludovo – e Zdravko Bregovac, tra i fondatori del gruppo architetto­nico-­artistico Exat 51». In Croazia, studiosi ed esperti si stanno adoperando per ricollocare tali sperimentazioni nel contesto storico del modernismo internazionale. «Quel pe­riodo», spiega Mrduljaš, «è divenuto un trend esotico; biso­gna fare attenzione a che non vengano enfatizzate solo le sue espressioni più eccentriche anziché le migliori. Perché si rischia di ridurre il tutto a un foto­safari post­coloniale».

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