Il 23 dicembre scorso un incendio ha distrutto il campo profughi di Lipa in Bosnia. Da quel giorno i migranti, originari soprattutto da Pakistan ed Afghanistan, respinti dalla Croazia, la Slovenia e l’Italia sono al gelo, sotto la neve. Senza nessun riparo. E lo sarebbero rimasti comunque, perché in quella data era stata disposta la chiusura del campo per inadeguatezza ad ospitare persone: mancavano acqua, fognature ed elettricità.
Diversi fotografi hanno documentato in queste settimane l’inferno che migliaia di persone stanno vivendo: dalla fila a piedi nudi o in ciabatte sotto la neve per ricevere il cibo dalla Croce Rossa locale, al tentativo di lavarsi con l’acqua ghiacciata disponibile nelle vicinanze. Non è il primo anno che vediamo immagini di questo tipo. Perché continua ad accadere?
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Proprio negli stessi giorni, il tribunale di Roma ha accolto il ricorso di un cittadino pachistano, di 27 anni, richiedente asilo che era stato respinto prima in Slovenia dall’Italia, poi in Croazia e quindi in Bosnia. «È stato un caso complesso, ma molto importante», ha spiegato ad Internazionale Caterina Bove, che insieme ad Anna Brambilla dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha presentato il ricorso «Il ragazzo era scappato dal suo paese per il suo orientamento sessuale, aveva tentato il cosiddetto game varie volte, ma era stato respinto dieci volte dalla Croazia alla Bosnia».
Solo nel 2020 le persone respinte al confine italo-sloveno sono state oltre un migliaio. Da molti anni la rotta balcanica è attraversata da migliaia (65mila dal 2018), la Bosnia tuttavia non ha aperto nessuna struttura adeguata ad accogliere queste persone, che oggi sono bloccate in tende e baracche. «Negli ultimi due anni abbiamo fornito oltre 90 milioni di euro per centri, attrezzature, assistenza medica e sociale», ha detto Peter Stano, portavoce dell’Alto rappresentante Ue. «Abbiamo bisogno che si muovano, non che giochino con la vita delle persone».
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