Chiunque navighi sui social da qualche anno avrà bene in mente la faccia del presentatore Carlo Conti quando, durante una puntata de L’Eredità, si è trovato in una situazione surreale di fronte a una domanda a tema storico. Ai concorrenti si chiedeva di individuare la data in cui Adolf Hitler venne nominato cancelliere e uno di questi aveva dato la risposta corretta solo perché, tra le quattro opzioni, era l’ultima rimasta. Quelli prima, in ordine, avevano infatti risposto: 1948, 1964, 1979. L’episodio è stato talmente iconico da diventare il simbolo di alcune pagine social, ma suggerisce ovviamente una lettura che va oltre l’ilarità del caso. In particolare, rappresenta perfettamente una società che sembra aver perso qualsiasi tipo di coscienza storica, anche dei fatti più rilevanti del Novecento.
Dalla fine del grande conflitto sono passati 79 anni e i partigiani ancora in vita, che possono attivamente condividere la loro esperienza, sono pochissimi, così come sono sempre meno le persone che hanno un ricordo diretto di quei tempi. Di fatto meno dell’8% degli italiani erano già nati durante quel periodo. Tra gli anni della caduta del Fascismo e i nostri giorni si sta così creando un divario importante, non solo temporale, ma anche culturale, che rende quegli eventi via via sempre più confusi e sfumati. Ciò, naturalmente, non giustifica l’incapacità di contestualizzare il periodo dei totalitarismi: la nostra storia è un patrimonio che dovrebbe essere studiato e conosciuto a prescindere dalla presenza o meno di testimoni diretti. Il pericolo, naturalmente, è che insieme alla conoscenza dei fatti storici che hanno segnato quegli anni si affievolisca anche la consapevolezza dei valori che hanno contraddistinto la Resistenza e che sono alla base della nascita della Repubblica italiana. Col passare del tempo si è continuato a dare erroneamente per scontato che il significato storico del termine Fascismo fosse ben nitido nella mente delle persone. Poi, però, ci si è accorti che episodi come quello avvenuto a Roma in via Acca Laurentia, se analizzato in termini di sondaggi, non ha creato alcuna difficoltà a una maggioranza di governo che si è guardata bene dal condannarlo. Allo stesso tempo, per quanto aberrante, non pare sconvolgere più di tanto la popolazione il fatto che la seconda carica dello Stato, quando si reca al Memoriale della Shoah in visita ufficiale, si senta in diritto di non rispondere alla domanda “Si sente antifascista oggi?”. Del resto, si tratta dello stesso presidente del Senato che qualche anno fa mostrava orgogliosamente bassorilievi, busti del Duce e cimeli fascisti.
I silenzi da parte del governo su questi episodi, sempre più frequenti, sono interpretabili in diverse maniere. Di certo c’è che i movimenti neofascisti rappresentano un bacino elettorale importante di cui il centrodestra non vuole privarsi – specie a pochi mesi dalle elezioni europee. Perciò, indipendentemente dalle simpatie fasciste o meno dei singoli membri del governo, nessuno dei suoi membri si sognerebbe mai di dichiararsi antifascista in un periodo come questo, colmo di insicurezza sociale, in cui gli estremismi hanno facile presa sulle persone. Tutto ciò però avviene nonostante la Costituzione del nostro Paese sia saldamente retta da ideali antifascisti ed esistano norme come la legge Scelba o la legge Mancino che sanzionano ogni tipo di esaltazione di principi, metodi e fatti propri del Fascismo o tipiche di organizzazioni violente e discriminatorie. I motivi sono molteplici: come ricorda lo storico Alessandro Barbero, il consenso per il Fascismo c’è sempre stato, prima e dopo il Ventennio, e non è improvvisamente scomparso dopo la guerra, ma è rimasto semplicemente nascosto per alcuni decenni. Tuttavia, oggi fatichiamo ad associare al concetto di fascismo il suo contenuto concreto. “Non si ha più la minima idea di cos’ha voluto dire in certi momenti”, afferma lo storico: ed è piuttosto comprensibile se si pensa che, grazie alla Liberazione, per decenni abbiamo vissuto in uno Stato in cui libertà e democrazia non sono più state messe in discussione.
Chiunque abbia studiato la storia del Ventennio sa bene che, come in tutte le fasi del passato, parliamo di un periodo di luci e ombre. Il punto è che tra gli aspetti più cupi del Regime possiamo individuare un estremo disprezzo per la democrazia, la legittimazione della discriminazione razziale e sociale, una sostanziale limitazione dei diritti civili e politici e l’uso della violenza come metodo di lotta politica. Perciò è evidente che quando qualcuno inneggia al Fascismo oggi inneggia anche a queste dinamiche inaccettabili per una società democratica come la nostra. Tuttavia, senza la piena consapevolezza di questi elementi, la parola “Fascismo” finisce per perdere il proprio significato, e apparire come un concetto anacronistico, utilizzato come strumento politico usato al massimo per attaccare genericamente i propri avversari. È fondamentale, allora, lavorare da un lato per restituire una piena coscienza di ciò che ha rappresentato il Fascismo nel nostro Paese, superando la visione distorta e positiva – o non troppo grave – che spesso viene trasmessa con una lettura di questo fenomeno del tutto parziale e strumentale; dall’altro, serve valorizzare chi attualizza i valori che l’antifascismo ha garantito nel dopoguerra e che oggi vengono minacciati sempre più spesso.
Alla parola “Fascismo” va innanzitutto restituita la sua storicità. Questo non significa ridurre il tutto a un semplice fatto del passato, ma piuttosto scomporlo per cogliere gli elementi inconciliabili con la nostra società. Ciò significa assumere uno sguardo storico, che non neghi la complessità di quel ventennio ma che, al tempo stesso, sia in grado di dare uno sguardo d’insieme. Il modo più efficace per farlo è sfruttare l’enorme patrimonio di testimonianze che ci sono rimaste. Per esempio ascoltare il racconto di Ferruccio Laffi, un sopravvissuto alla strage di Marzabotto, è qualcosa che dà realmente contezza di ciò che ha rappresentato la guerra voluta dal Fascismo nel nostro Paese. Gli occhi lucidi di Laffi mentre ricorda la morte del padre, trovato rannicchiato, nudo, a cui avevano “Fatto vedere lo spettacolo e poi lo hanno ucciso”, hanno una forza empatica mostruosa. La stessa potenza che ha ciascuna delle storie dei superstiti della Resistenza, degli eccidi e dei campi di concentramento. Pensare che si possa decidere di non prendere le distanze da un movimento politico co-responsabile di una serie di stragi come questa dà contezza della gravità politica di strizzare l’occhio a movimenti che inneggiano al ritorno di quei tempi.
Allo stesso tempo, assumere uno sguardo storico significa anche non utilizzare il Ventennio come un semplice strumento di contrapposizione politica. Dalle radici dell’antifascismo sarebbe importante recuperare quella spinta all’azione che ha contraddistinto il periodo della Resistenza. Ritrovare il valore e la necessità delle scelte difficili, del coraggio di esporsi, della capacità di trovarsi a far parte di una minoranza, significa cercare l’essenza più concreta della storia partigiana. È ciò che fanno oggi per esempio le associazioni e gli attivisti che si occupano di creare consapevolezza sul cambiamento climatico, o gli enti che fondano sul tema delle disuguaglianze sociali la propria attività, realtà che vivono l’attivismo in prima linea attraverso una presa di posizione continua. E questo, durante un periodo storico in cui c’è un grande bisogno di prese di posizione forti, è essenziale.
A maggior ragione quando un Paese si trova ai massimi storici in termini di astensionismo: palese sintomo di profonda indifferenza verso la cosa pubblica e di una sostanziale arrendevolezza verso la situazione attuale. I motivi sono molteplici, ma è innegabile che una certa responsabilità sia da ricercare nella mancanza di alternative politiche convincenti e capaci di comunicare le esigenze di un Paese che ha bisogno di credere in un’alternativa. Fare opposizione a un governo che strizza l’occhio ai nostalgici del Ventennio non può limitarsi alla contrapposizione ideologica, ma deve sviluppare una spinta propulsiva.
Questo, in primo luogo, deve avvenire attraverso una presa di posizione continua che affronti direttamente il dramma dell’indifferenza dilagante. “Dopo anni ho sentito il crescere la marea dell’odio, prima piano piano,” ha affermato Liliana Segre alcuni anni fa, “Forse ieri i tempi non erano maturi, ma oggi purtroppo la realtà ci consegna una lista quotidiana di atti e testimonianze inqualificabili. Secondo me dobbiamo lavorare contro la fascistizzazione del senso comune, che sta appena appena un gradino sopra quell’indifferenza (mia grande nemica) che ottant’anni anni fa ha coperto di vergogna l’Italia fascista”. Forse la chiave per restituire all’antifascismo la sua dimensione più concreta e attuale sta proprio in queste parole.
L’articolo Col tempo rischiamo che la coscienza collettiva dimentichi gli orrori del fascismo e che li replichi proviene da THE VISION.