Dashwood Books, la libreria cult dei fotografi newyorkesi, apre uno spazio espositivo nell’East Village. Di proprietà e gestita da David Strettell, ex direttore culturale di Magnum Photos, Dashwood è l’unica libreria di fotografia indipendente della città, con quasi 20 anni di attività alle spalle. Gli scaffali di Dashwood, organizzati per Paese d’origine e argomento, sono pieni di volumi di fotografia popolari e rari, dagli anni ’60 a oggi, prodotti da piccoli e grandi editori negli Stati Uniti, in Asia e in Europa.
A inaugurare la nuova galleria, che si chiamerà Daswhood Projects, è la mostra di Daido Moriyama, Shashin Jidai 1981-1988. La mostra, in apertura il 7 marzo, è anticipata da un libro la cui copertina rosso magenta campeggia nella vetrina di Dashwood. Si tratta della raccolta di immagini uscite periodicamente dal luglio 1981 dopo che Moriyama aveva smesso di fotografare per dieci anni. L’autore era rimasto impantanato in un’acuta crisi creativa dopo la pubblicazione del suo libro fondamentale, Shashin yo Sayonara (Fotografia addio) nel 1972, perdendosi anche nell’uso di sonniferi e stupefacenti.
Akira Hasegawa, redattore di Shashin Jidai intervistò Moriyama per il primo numero della rivista, accompagnato da quattro foto. Il pezzo, intitolato Hikari to Kage (Luce e ombra), segna il riemergere di Moriyama come fotografo. Uscirono quindi sei saggi scritti dal fotografo e 63 numeri della rivista fino all’aprile 1988.
Nel primo saggio Un posto per la peonia, Daido Moriyama descrive così le sensazioni contrastanti che lo portarono a tornare a fotografare: «Due anni fa, in un giorno di inizio primavera, un editore mi telefonò a casa a Zushi. Mi disse che aveva intenzione di lanciare una nuova rivista di fotografia e voleva intervistarmi. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevo toccato una macchina fotografica. A quel punto, mi ero ritirato quasi completamente dalla scena fotografica e non mi identificavo quasi più come fotografo. Di conseguenza, la prospettiva di una nuova rivista di fotografia non mi entusiasmava particolarmente e mi sentivo indeciso di fronte alla richiesta di un’intervista. Ma dopo aver riattaccato il telefono una terribile disperazione mi assalì. Da un lato, desideravo che tutti mi lasciassero in pace, come un bambino insolente, frustrato dal mondo e da me stesso. Allo stesso tempo, una parte di me desiderava che il redattore mi avesse almeno chiesto di contribuire con delle fotografie. Queste emozioni contrastanti mi facevano sentire ancora più infastidito. D’altronde, cosa ci si poteva aspettare dall’intervista, se non avevo alcuna risposta alle domande che mi sarebbero state poste? Non potevo far altro che crogiolarmi nell’autocommiserazione e nella triste autoconsolazione. Per quanto mi mancasse evadere dalla realtà in modo drammatico, potevo comunque gestire una pseudo evasione, prendendo altri sonniferi da cui dipendevo per affrontare la vita con un’espressione instupidita e gli occhi perennemente fuori fuoco».
L’iniziativa dietro questo nuovo libro, pubblicato da Dashwood Books e Session Press, viene dalla manager della piccola libreria, figura di riferimento per chiunque entri nel negozio. La giapponese Miwa Susuda, filosofa ed esperta di fotografia ha una sua casa editrice, Session Press, appunto, con cui si propone di portare negli USA artisti giapponesi, cinesi e non solo. La personalità di Susuda emerge in ognuno degli scambi con i vari avventori, che non se ne vanno mai a mani vuote: escono portando con sé uno dei libri consigliati dalla donna, oppure con una nuova idea, un consiglio, un’ispirazione che lei, interpellandoli sempre, uno a uno, con grazia e curiosità, gli ha donato.
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