Dove inizia il coraggio

Dove inizia il coraggio
Beatrice Zott, dove inizia il coraggio

Questo articolo è pubblicato sul numero 4 di Vanity Fair in edicola fino al 27 gennaio 2021

Il nastro segnaletico che sbarra la porta d’ingresso di quella che è stata la casa di Agitu Gudeta si vede da lontano e fa male agli occhi. Succede per quel rosso intermittente e totalmente incongruente con le infinite sfumature di bianco che la neve sa assumere quando ricopre ogni cosa. Succede per l’assurdità che testimonia: Agitu è stata uccisa.
Alla fine l’ha trovata qui, in questa piccola valle remota del Trentino, quella morte da cui era fuggita in Etiopia, dove denunciava le espropriazioni di terre da parte del governo e, per questo, era braccata dai militari. Viene da pensare a Samarcanda di Vecchioni mentre il camper di Sandro, suo amico da tanti anni, tira dritto per fermarsi qualche chilometro più avanti, a Fierozzo, dove Agi – come la chiamavano tutti – però c’è ancora.

Un bravo pastore sa che quando nella sua stalla c’è silenzio i suoi animali stanno bene. E nella stalla delle capre di Agi (un’ottantina, quasi tutte gravide) c’è un silenzio quasi solenne, rotto soltanto dal rumore delicato di zoccoli che calpestano la paglia, corna che si incocciano nella foga di raggiungere il fieno nella mangiatoia, denti che ruminano. Sono capre mochene, camosciate, vallesane, imparentate e selezionate per fare latte buonissimo, una immensa famiglia di femmine in cui gli unici due maschi spiccano per timidezza e dimensioni modeste: vanno nutriti facendo dei favoritismi, perché le altre non li lasciano mangiare mai. A occuparsi di loro è Beatrice Zott, una giovane pastora di 19 anni. I giornali hanno raccontato questo passaggio di testimone con enfasi, ma, si schermisce lei, «faccio solo il mio lavoro: la federazione allevatori, attraverso il sindaco, mi ha chiesto se potevo occuparmi della stalla fino a quando la famiglia di Agitu non deciderà che cosa fare degli animali. E io, che ho solo 10 capre mie, ho accettato».

Beatrice viene da una famiglia di pastori: lo erano i nonni e lo era il padre che però, quando è nata lei, ha venduto il gregge, forse immaginando una vita più normale. La stessa che ha cercato Beatrice, almeno fino a quando qualcosa le si è incrinato dentro. «Mi ero iscritta al liceo artistico, ma ho iniziato ad avere attacchi di panico. Non riuscivo più a prendere un autobus, un treno: niente da cui non potessi scendere se e quando lo decidevo. Mi sono dovuta ritirare da scuola, ed è iniziata la depressione, un anno terribile che è finito un giorno preciso: quello in cui ho preso il primo di una serie di treni che mi avrebbe portata in Svizzera». Là Beatrice lavora in una fattoria e impara le cose che senza saperlo sa già, perché le ha sempre viste fare dai suoi nonni. «Dopo quell’esperienza ne ho fatta un’altra in Valle d’Aosta. Poi, la scorsa estate, ho preso in gestione 250 capre e ho affittato la vecchia malga dei miei nonni, che nel frattempo era stata venduta: ci sono stata 5 mesi, da sola, senza acqua calda né corrente. Il mio ragazzo veniva solo nel weekend, il resto del tempo eravamo io e il cane: con lui non avevo paura. Questo è un lavoro duro, devi amare la natura, la solitudine, il silenzio. La mattina ti svegli piangendo perché sai quanta fatica ti aspetta e la sera vai a dormire sorridendo, perché sei felice». Mentre racconta, Beatrice solleva balle di fieno da 15 chili, le lancia, le smembra, ne ruba piccoli ciuffi da dare alle capre che le si avvicinano, i musi protesi come cagnolini. «Agi era una pastora moderna: faceva tutto senza il cane, gli animali la ascoltavano e la seguivano. Il gregge ora sa che lei non c’è più: io ho un’altra voce e un’altra faccia. Ma mi hanno presa bene, forse perché hanno capito che sono più selvatica di loro».

La Valle dei Mocheni è un pezzo di montagna trentina strappato alle logiche del turismo di massa: nessun impianto di risalita, nessun anello di fondo. Sotto terra nasconde sorgenti d’acqua e filoni metalliferi, ora esauriti, scavati in passato da migranti tedeschi che scappavano dalla fame, sopra è punteggiata di chiese, masi e baite. L’unità di misura dell’economia locale è sempre stata il maso, una casa che è anche stalla, fattoria, orto, frutteto. L’utopia autarchica dettata non dall’idealismo ma dalla necessità. Il maso produce per i bisogni della famiglia che lo abita e avanza qualcosa che serve da merce di scambio. Dopo decenni di progressivo spopolamento, i figli e i nipoti di quelli che se ne erano andati stanno tornando in questa e nelle altre valli, e, a cercare di fare di questa scelta di vita anche un lavoro, sono soprattutto le donne. «Il coraggio e l’attitudine alla cura sono le caratteristiche che servono a fare questo passo. Mi sembra abbastanza inevitabile che le donne siano diventate il motore di questi posti», dice Margherita Menestrina, 33 anni e tre figli, una formazione di educatrice a Trento, un presente di pastora di 40 capre e piccola produttrice di formaggi a Margone, nella Valle dei Laghi. «Agitu è stata una fonte di ispirazione morale e un esempio imprenditoriale per me e per molte altre donne. Tante volte, di fronte a scelte importanti, mi sono ritrovata a chiedermi che cosa avrebbe fatto lei. Qualche volta la chiamavo e glielo domandavo direttamente, ma poi non ce n’è stato più bisogno: sapevo già che lei avrebbe fatto la scelta più equa e più coraggiosa». Agitu la conoscevano tutti di fama e anche di persona perché faceva mercatini in cui vendeva i suoi formaggi affinati alla francese e perché frequentava tantissimi corsi di aggiornamento. «Lei aveva voglia di imparare tutto e poi faceva un passo in più: era diventata un punto di riferimento – non solo per noi donne – e la sua azienda oggetto di ricerca e studio. È stata rivoluzionaria sotto tanti punti di vista: per il suo modo di gestire gli animali, per come lavorava il latte, per la sua idea che i pascoli sono di chi li pascola. Ma secondo me la cosa più importante che ha fatto è stato vivere con integrità: ha portato nell’agricoltura – un ambito non proprio aperto per tradizione – i suoi valori di libertà, uguaglianza, integrazione, parità di genere. La sua idea di un mondo libero dove le persone si comportano in modo equo le une con le altre. Era molto di più di una pastora coraggiosa, era una persona speciale». Sul suo profilo WhatsApp Margherita ha messo una foto di Agi. La foto è appoggiata sulla neve, dietro si intuisce l’intreccio di una corona commemorativa. Sulla foto c’è scritto: sarai sempre qui.

Anche Laura Masciocchi era amica e collega di Agitu. Nata a Varese, si è laureata in agraria e, dopo un’estate in malga, ha capito che, invece di lavorare alla Asl, voleva diventare pastora. Ha fatto un corso all’Istituto lattiero-caseario di Moretta (Cuneo) e lì ha conosciuto Enrico, suo marito. Da 10 anni d’inverno vivono «nella periferia di Pez, paese che ha ben 24 abitanti», nel Parco Adamello-Brenta. Sono loro due, Leandro e Remigio (4 anni e 16 mesi), un centinaio di animali tra capre, pecore, mucche e un piccolo caseificio. D’estate salgono con le bestie alla Malga Stabio. «È li che mi si sono rotte le acque quando è nato Leandro», ricorda. La stalla di Laura è organizzata come un collegio svizzero – niente a che vedere con la quieta e affollata anarchia della stalla di Agitu, «ma ognuno ha il suo stile di allevamento», dice la pastora – con un’area mungitura e una nursery che al momento ospita due agnellini che i suoi figli allattano col biberon. Oltre ai formaggi vorrebbero aprire una piccola rivendita estiva di gelati fatti in casa, «tre o quattro gusti al massimo, vedremo se ci riusciamo». Intanto il primo pensiero sono i tantissimi parti imminenti (capre e pecore si sono sincronizzate con le nascite); prima, se c’era qualche problema, bastava chiamare Agi che «sapeva sempre come tirare fuori un caprettino che non riusciva a uscire». Adesso bisogna fidarsi dei ricordi e delle mani, e fare da soli.

Poco sopra la stalla di Agitu inizia una salita ripida che porta al maso Klopfhof, un piccolo agriturismo che è la realizzazione del sogno di Barbara: recuperare la stalla dei bisnonni in cui passava le estati, e andarci a vivere. «Mia madre era contraria, e anche Daniele, che sarebbe diventato mio marito e lavorava in fabbrica a Trento, diceva che ero completamente matta». Ma adesso, dopo essersi licenziato, vive anche lui felicemente qui, con i loro 4 figli, dai 15 ai 3 anni. Si nutrono, e nutrono i loro ospiti, di quello che producono. Allevano e macellano «con rispetto: se l’animale ti conosce non ha paura», riscaldano tutto a legna, raccolgono e usano l’acqua piovana. Barbara, che fino ai vent’anni non mangiava niente, ha iniziato a cucinare e ha scoperto di avere passione e talento. Con altre donne della zona ha avviato anche un progetto di recupero e riutilizzo della lana di pecora, che per i pastori è uno scarto da smaltire a pagamento, perché contiene azoto. «La puliamo, cardiamo e lavoriamo in modo da farne gomitoli tinti in modo naturale (con frutta e verdura) o imbottiture per cuscini e piumoni». Tra le socie del progetto, che si chiama Bollait (in lingua mochena vuol dire «gente della lana»), ci sono Daniela che ha un laboratorio di pane e dolci di montagna, Giovanna che gestisce un agriturismo in Val Sugana e Vea Carpi che ha un piccolo ristorante in un maso. Nata a Pisa, dopo la laurea in scienze politiche Vea si è trasferita in Trentino per amore e ha iniziato, da zero, a provare a fare tutto: coltivare, allevare, cucinare. Al suo Mas del Saro, dove vive con il marito Renzo e tre figli, propone piatti vegetariani con quel che il suo orto offre. «Non sapere fare niente è stato un grande rischio, ma anche una opportunità di essere libera senza regole e tradizioni da rispettare». Nel suo ristorante c’erano i formaggi di Agitu. «Ho dovuto spiegare la sua morte alle mie figlie, che la conoscevano. Ho detto che ha vissuto dimostrando che una donna da sola può fare impresa, ma che credo anche che sia morta per questo: se fosse stata un uomo io penso che non sarebbe stata uccisa. Perché all’imprenditore uomo viene riconosciuto un ruolo verso il quale i dipendenti hanno rispetto e anche a volte timore. A noi donne per farci riconoscere ci tocca fare fatica. Il suo, il mio, è un settore nel quale non siamo previste, se non accompagnate da un maschio. Io stessa in certe situazioni devo chiedere a mio marito di intervenire, di parlare al posto mio. La sua fine è stata la dimostrazione di come ha vissuto, portata alle estreme conseguenze. Un esempio di cui dobbiamo fare tesoro».

FOTO: ANDREA FRAZZETTA

Per abbonarvi a Vanity Fair, cliccate qui.

LEGGI ANCHE

Agitu e le sue capre felici

LEGGI ANCHE

Agitu Ideo Gudeta, uccisa da un dipendente l’icona d’integrazione

Questo sito utilizza cookies per concederti di utilizzare al meglio le sue funzionalità. Leggi qui la cookies policy
ACCETTO