Giuseppe Spata: «Voglio fare un salto»

Giuseppe Spata: «Voglio fare un salto»

Ieri sono uscito con l’idea di prendermi una pizza in un locale qui vicino, ma l’ho trovato chiuso: la situazione è drammatica». In quest’anno segnato dalla pandemia Giuseppe Spata, 27 anni, parla di «necessità di seguire il buon senso», dice che «bisogna uscire il meno possibile». E che «il presidente Mattarella ha ragione quando afferma che se continuiamo a dividerci, i danni si moltiplicheranno».

Con il tono di chi non è ancora adulto, ma nemmeno un ragazzino, l’attore ragusano risponde al telefono dal suo appartamento romano. Coronavirus a parte, sta vivendo un bel momento: dopo l’esordio al cinema nel film Soldato semplice di Paolo Cevoli, nel 2016 ha ottenuto il suo primo ruolo da protagonista nella serie Rai Come fai sbagli.

Tra le altre prove per il piccolo schermo, La mafia uccide solo d’estate e La vita promessa, lavori che gli sono valsi una notorietà crescente. Ma soprattutto il ritorno al cinema nel nuovo film di Paolo Taviani Leonora addio, ora a fine lavorazione. «Un’opportunità che mi rende felicissimo», dichiara Spata. «Sarebbe stato già un sogno andare su quel set anche solo per guardare».

Parliamo di un regista che, con il compianto fratello Vittorio, ha conquistato molti premi, dalla Palma d’Oro a Cannes nel ’77 con Padre padrone all’Orso d’Oro a Berlino nel 2012 con Cesare deve morire. La vive come una svolta?
«Come un’occasione che spero mi consenta un salto. Amo i fratelli Taviani e il cinema d’autore da sempre. Sarà che sono un fan di Gian Maria Volonté, ma adoro Elio Petri. Non è snobismo verso le fiction tv: ne ho fatte tante, affrontandole tutte con serietà e orgoglio».
Però?
«Però vedere un signore come Taviani prendersi tutto il tempo necessario per decidere l’inquadratura giusta, per compiere delle scelte… Quel tempo altrove non c’è e questo mi ha emozionato al punto che a volte quasi mi scordavo che ero lì per recitare: osservavo, mi guardavo le scene al monitor. Il tutto in mezzo a una squadra intenta a lavorare in assoluto silenzio: straordinario».
Leonora addio è girato nella sua Sicilia, un film ispirato a Pirandello.
«Già, quando Pirandello morì le sue ceneri fecero un viaggio che è una storia a sé e il film narra quel viaggio in una maniera piuttosto visionaria. Io ho un ruolo abbastanza piccolo, ma per me importante: sono un giovane che sta tornando in treno a Salina, alle sue origini».
Con chi altro sogna di lavorare in futuro?
«Tra i giovani, Pietro Castellitto. E poi Matteo Garrone, è un pittore come me, mi affascina pensare a come questo influisca sul suo sguardo».
Dipinge?
«Da ragazzino percepivo la scuola come qualcosa di dittatoriale, così passavo il tempo a disegnare. Non ho mai smesso, ma non ho uno stile, sperimento. Anche come attore non ho un metodo, ogni volta che ho un ruolo da preparare m’invento un modo. Me l’ha insegnato Gisella Burinato, con cui ho studiato recitazione qui a Roma: l’attore è come un artigiano, costruisce i personaggi fondendo pezzi di vita, di storie. Di fronte alla tela, però, agisco più d’istinto, mi sfogo. Faccio anche ritratti».
Di chi?
«Di recente di un signore che vedo spesso sotto casa col cane, non lo conosco, ma sembra sempre abbia pensieri ingombranti. E di mia nonna Idea, che si chiama così perché, quando nacque, suo padre era in guerra, e spedì alla mia bisnonna una lettera in cui scriveva: “Di tornare avrei l’idea, ma ahimè sono in trincea”. È bionda con gli occhi azzurri, una rarità in Sicilia».
La terra dove è nato e cresciuto.
«L’ho lasciata a 19 anni, dopo anni di teatro; avevo iniziato alle medie su consiglio di un’insegnante che mi vedeva svogliato nello studio. Il diploma l’ho preso – liceo classico con indirizzo artistico –, ma un giorno mi sono guardato allo specchio e ho capito che volevo davvero fare l’attore, così mi sono trasferito a Roma. Non è stato facile, ho fatto un mese di prova al Centro Sperimentale di Cinematografia, ma non mi hanno selezionato: ero troppo meravigliato da tutto, non ero mai uscito da Ragusa in vita mia. Deluso, sono fuggito a Londra, lavoravo in un fast-food messicano, tagliavo le cipolle. Ma non stavo costruendo. nulla, così sono tornato indietro e grazie a un’agenzia le cose hanno cominciato a girare».
Ha recitato in due fiction sulla mafia, che effetto le fa questa parola?
«Mi fa pensare che tutti noi possiamo contribuire a combatterla, la mafia, con un semplice gesto: pagare le tasse. Perché le organizzazioni criminali si rafforzano là dove lo Stato è assente, dove non eroga i servizi necessari, e questo accade non solo, ma anche perché mancano i soldi. Senza contare che spesso l’evasione fiscale diventa una scusa per la politica».
Con La donna del vento tornerà sotto la regia di Ricky Tognazzi. Parla dell’Ilva, vero?
«Non esplicitamente. Avremmo dovuto girare in Puglia, ma causa pandemia si è spostato tutto nel Lazio. Però sì, non si cita l’Ilva, ma il riferimento è quello. Io interpreto un operaio che lavora in un’acciaieria che inquina, fa ammalare. È bello quando cinema e tv sono anche di denuncia, soprattutto la mia generazione deve capire che viviamo in un’epoca in cui ogni problema è globale e si può risolvere solo unendosi. L’individualismo non porta da nessuna parte».

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