Francisco José de Goya y Lucientes (1746-1828): uno straordinario pittore, artista e incisore e soprattutto un personaggio affascinante che ispira simpatia, stima e attrazione anche per il fatto che riesce a trasportarci nella difficile temperie storica, culturale e sociale in cui ha vissuto. Un testimone attento, critico e originale della sua epoca senza essere ascrivibile a una precisa corrente stilistica, capace di creare partendo dalla tradizione una modernità incredibile, e ancora attuale, che ha fatto scuola alle generazioni successive.
Un periodo difficilissimo il suo – come lo sono quelli connotati da mutamenti repentini – caratterizzato tra l’altro dall’avvio dell’industrializzazione con nuove tecnologie e diversi modi di lavorare oltreché da conflitti, rovesciamenti politici e ritorni al passato. Le certezze instillate dal credo nella ragione dell’Illuminismo osservano con desolazione il guazzabuglio di tormentati sentimenti e passioni tipici del Preromanticismo. Il pervicace permanere del degrado dell’autorità politica e religiosa e della società spagnola, le crudezze nefaste di una guerra che ieri come in ogni tempo reca sofferenze, crudeltà e morte quale prezzo di effimere glorie militari e le dolorose problematiche di salute creano incertezze e incubi che toccano profondamente il Maestro.
Francisco Goya, il percorso esistenziale
A questo intrigante artista Milano dedica, fino al 3 marzo 2024, a Palazzo Reale, la seducente mostra Goya. La ribellione della ragione – con una sessantina tra quadri e incisioni in più sezioni – promossa dal Comune di Milano e prodotta da 24 ORE Cultura-Gruppo 24 Ore e Palazzo Reale in collaborazione con la Real Academia de Bellas Artes de San Fernando (Madrid) e con il patrocinio dell’Ambasciata di Spagna in Italia, dell’Ente del Turismo Spagnolo e dell’Istituto Cervantes (Milano).
Vediamo il percorso esistenziale che ha portato Goya a sbocciare come pianta millenaria a fronte di alcuni suoi contemporanei baciati in vita da una fugace fama (anche se a svantaggio dell’artista) poi divenuta polvere. Il Nostro nasce a Fuendetodos, località rurale vicino a Saragozza in Aragona, quartogenito di un maestro doratore (di ascendenza basca) che nel 1749 si trasferisce con la famiglia a Saragozza dove il giovane studia con poco entusiasmo presso il Collegio degli Scolopi, ma impara con ottimi risultati disegno e pittura presso la bottega del maestro José Luzán Martinez (qui tra i compagni ha Francisco Bayeu), poi presso la locale Academia de Dibujo.
Stringe amicizia con Martin Zapater, suo fedele sodale per tutta la vita, con cui intreccia una corrispondenza utile per avere sue notizie. Partecipa senza vincerli a due diversi concorsi alla Real Academia de Bellas Artes de San Fernando e deluso, nel 1770, si reca a proprie spese in Italia, più avanzata artisticamente, dove respira idee romantiche e da cui ritorna dopo avere concorso all’Accademia di Parma con un lavoro che, pur apprezzato, non vince.
In Spagna gli arride finalmente il successo e ottiene importanti commesse e sposa Josefa Bayeu, sorella di chi essendo più tradizionalista gli ha rallentato l’ascesa al successo. Chiamato da Mengs, primo pittore di Carlo III, esegue sette serie di cartoni per arazzi destinati a residenze reali.
Grazie ad appoggi importanti e a numerosi lavori di pregio, nel 1780 entra finalmente alla Real Academia quale Accademico di merito, ritrae la famiglia dell’infante e altri nobili e si lega con intellettuali illuministi. Sei anni dopo, il nuovo re Carlo IV lo nomina Pittore del re, poi Pittore di Camera del re e infine Primo Pittore di camera del re nel 1792 quando, richiesto dall’Academia, scrive una relazione sul suo concetto d’insegnamento (in effetti vi insegna dal 1785 al 1797 quando la lascia per l’aggravarsi della salute) delle arti rivelando la modernità della sua creatività, rivendicando la libertà dell’artista e auspicando una didattica che tenga conto delle attitudini degli alunni.
Proprio quando raggiunge la vetta agognata, è colpito da una grave malattia che gli causa sordità. Per tale percorso esistenziale si parla di un Goya “bianco”, solare e ambizioso e successivamente di un Goya “nero”, riflessivo, cupo e comunque più libero e personale che muta le scelte pittoriche. Violenza, follia, vandalismo, corrida e morte diventano le tematiche predilette senza che diminuiscano le commissioni tradizionali.
Sempre importantissima la protezione di aristocratici quali i Duchi d’Alba e, dopo la scomparsa del marito, della bellissima Duchessa. Nel 1819 pubblica la serie di incisioni Caprichos e ormai pittore di corte moltiplica i suoi lavori e con lo scoppio della guerra d’indipendenza incide i Desastres de la guerra. Con la Restaurazione dell’assolutismo di FernandoVII, pur continuando ufficialmente la ritrattistica, stigmatizza l’operato del re attraverso suoi lavori privati. Incide le serie Tauromaquia e Disparates, si trasferisce a Madrid in una casa di campagna che, dopo un’altra grave e dolorosa malattia, dipinge con le pessimistiche Pitture nere. Nel 1824, recatosi in Francia per cure termali, chiede di andare in pensione e vive insieme a illuministi esuli a Bordeaux dove termina la sua vita.
L’universo di Goya in mostra a Palazzo Reale di Milano
Entriamo attraverso il percorso tematico e cronologico della mostra nel vasto e variegato universo di questo artista che, dopo avere conosciuto il mondo e ottenuto cariche prestigiosissime, ha scoperto come molto sia legato all’apparire per cui ha approfondito la ricerca dell’essenza dell’umanità verso cui si è posto in modo filosofico acquisendo una pietas (virtù antica spesso negletta in nome di una corsa al successo che nei secoli muta nella forma, ma rimane inalterata nella sostanza) e quindi una carica di umanità profondamente empatica. Sette le sezioni: Goya, protagonista del suo tempo; L’apprendistato e gli esordi, Il popolo si diverte; Le commissioni e la clientela; Amicizie illuminate; Vigilare e denunciare; Goya e la guerra e La libertà critica e l’allargamento dell’immagine.
Nell’incipit della mostra ci accoglie il Nostro – che durante la sua vita si ritrae più volte anche per seguire l’evoluzione del suo fisico – nell’Autoritratto al cavalletto (l’unico a figura intera) del 1785 al lavoro in un abbigliamento elegante (l’abito majo d’aspetto barocco e lussuoso nasce nella Madrid dei tempi di Goya in opposizione a quello più rigido dell’aristocrazia) e non da atelier. Una doppia luce ne potenzia la profondità e la tavolozza su cui i colori sono disposti con l’ordine previsto dalla forma classica con ai margini i toni più chiari a destra e quelli più scuri a sinistra e la parte centrale per le miscele. La scrivania, propria dei letterati, sta a significare l’alto valore intellettuale che Goya attribuisce alla sua professione.
Interessante comparare questo autoritratto con quello del 1797-1799 Francisco Goya y Lucientes, pintor, acquaforte che rappresenta il frontespizio dei Caprichos (ottanta stampe di satira contro i vizi umani): sulla cinquantina, di profilo, dall’atteggiamento distante, sereno e ironico e abbigliato alla francese e con quello del 1815, il sedicesimo conosciuto, in cui a 69 anni, dopo avere perso moglie e sei figli e sperimentato la guerra, l’artista mostra uno sguardo intenso e di grande dignità.
Non manca la tela Annibale vincitore osserva l’Italia del concorso di Parma nel quale, pur non avendogli assegnato la vittoria, i commissari si esprimono lodando “la maestria nell’uso del pennello, la calda espressione del viso, nonché la grandiosità dell’atteggiamento di Annibale” e rammaricandosi per le tinte non aderenti alla realtà.
Bambini che giocano alla corrida fa parte di un serie di sei tele simili come caratteristiche tra cui le piccole dimensioni, forse cartoni per arazzi, mai realizzati, destinati alle camere reali. C’è da chiedersi se il sovrano avrebbe accettato ritratti di bambini mal vestiti e poveri tramite i quali in effetti Goya denuncia il grave stato in cui è lasciato il popolo, quasi a preannunciare in modo attenuato la successiva dura critica sociale dei Caprichos.
La tematica della corrida tipicamente spagnola lo appassiona per tutta la vita e qui non manca il toro “di vimini” portato in spalla da un fanciullo! Splendida sullo stesso tema la piccola tela Il trascinamento del toro appartenente a una serie di quattordici quadri (di cui otto sulla corrida) dipinti durante la convalescenza della malattia (che lo colpisce nel 1793) allo scopo sia di distrarsi usando liberamente capriccio e invenzione non essendo vincolato da commesse, sia di guadagnare in parte ciò che la cura gli ha tolto. E qui il risultato affascina sia per lo scorcio prospettico dell’arena, sia per la resa dei corpi del toro senza vita e dei mulillas (muli) che si muovono nello sforzo di trascinarlo.
Diverse in genere sono le commesse sia religiose, sia laiche come José de Vargas y Ponce, marinaio e storico nonché sostenitore di un insegnamento progressista e contrario alla corrida con argomentazioni valide ancora oggi: promosso direttore della Real Academia de la Historia, chiede a Goya di ritrarlo “come lui sa fare quando vuole” e con la mano nel panciotto per fare risparmiare duemila reales all’Istituzione o ancora María Gabriela Palafox y Portocarrero, marquesa de Lazán, abbigliata con molta eleganza in seta bianca con ricami d’oro, manto d’ermellino, pianella bianca, a suo agio davanti al pittore.
Più intimo e soffuso di affetto il ritratto del nipotino Mariano Goya Goicoechea, Marianito, vestito elegantemente, che si sta esercitando con la musica, segno di alto lignaggio sociale, altrettanto intimo, se non confidenziale quello di Gaspar Melchor de Javellanos, letterato, giurista e politico importante dell’Illuminismo spagnolo, soprannominato Jovino, el melancólico atteggiamento con cui Goya lo ritrae. Particolare e inusuale Il Colosso che simboleggerebbe l’esercito francese o Napoleone in persona: nel 2009 il Prado ha cancellato la sua attribuzione a Goya riattribuendogliela nel 2021.
Questa mostra offre una singolarità assoluta: rende possibile vedere per la prima volta in Italia alcune delle famosissime incisioni di Goya (228 opere realizzate su lastre di rame di fabbricazione sia spagnola, sia inglese) insieme alle rispettive matrici (in rame) il cui delicato, complesso e lungo restauro è stato da poco terminato grazie a un progetto di recupero, conservazione e stabilizzazione a opera della Real Academia de Bellas Artes de San Fernando con la sua Calcografia Nacional. Le incisioni accompagnate dalle rispettive matrici richiedono un’analisi attenta non scevra da emozioni come per E non c’è niente da fare da cui traspare la fredda angoscia di un’assoluta impotenza per l’uomo bendato dopo che molti sono già stati fucilati: gelida cronaca di bieca e inutile crudeltà identica nei millenni.
Deliziosa Perfino suo nonno, incisione facente parte della sottoserie dedicata agli asini che nella tradizione iconografica europea sono simbolo di ignoranza (pregiudizio demolito oggi in cui le nostre conoscenze su tale animale hanno portato addirittura a capovolgerne la considerazione e a definirlo uno dei più intelligenti mammiferi) per cui da emblema di letterati incapaci in tale incisione si trasforma in quello di una nobiltà ereditaria inetta come risulta dall’arma (araldica) a lato del tavolo e dalla serie di animali – “una progenie di stolti” – pubblicati sulle pagine del libro. Una satira anche verso tutti coloro che cercano affannosamente sangue blu nella loro ascendenza…e Goya non ne è stato esente pur se la parte progressista spagnola dell’epoca considera la nobiltà ereditaria anacronistica e superata.
È veramente un piacevole privilegio conoscere un personaggio come Goya inizialmente solo desideroso di affermarsi come un buon pittore di dipinti tradizionali come richiede la sua epoca, ma, raggiunto lo scopo, capace poi di compiere una rivoluzione rompendo con il passato attraverso forme nuove e personali che precorrono la modernità.
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