Il gioco è per l’uomo attitudine originaria, primigenia, pre-culturale; è spazio di libertà e autodeterminazione. Per il bambino è comportamento ovvio quanto necessario, per l’adulto, invece, è azione da riscoprire e condizione da ricercare. Homo ludens scriveva Johan Huizinga nel 1938 in uno studio fondamentale in cui esaminava il gioco come fondamento di ogni cultura dell’organizzazione sociale. Oggi questo stesso tema diventa titolo e concept di una mostra, curata da Alice Caracciolo e Flavia Parisi e prodotta da Linea di Lecce, spazio di studio, ricerca e promozione dell’arte contemporanea e della fotografia d’autore. Protagonista dell’evento è Mario Cresci (Chiavari, 1942), uno dei più noti e acclamati fotografi italiani, recentemente celebrato anche da un’ampia antologica al Maxxi di Roma. Homo ludens è un progetto sostenuto dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, nell’ambito dell’avviso pubblico “Strategia Fotografia 2023” destinato alla selezione di proposte di acquisizione, produzione, conservazione, valorizzazione della fotografia e del patrimonio fotografico. Per l’occasione Mario Cresci ha lavorato al Museo della Ceramica di Cutrofiano, fotografando, con il suo consueto approccio etnoantropologico, i fischietti realizzati da un artigiano locale scomparso, Giuseppe Colì meglio noto come Pinu Rizzu, oggi raccolti in buon numero nel museo salentino. Dal progetto è emersa una duplice visione ludica: quella dell’artigiano, capace di plasmare la visione nella terracotta, di imprimere pensiero alla materia, e quella del fotografo, che nell’immagine dei fischietti è riuscito a raccontare attitudini, passione e storia. Il gioco diviene così relazione che travalica il tempo, visione partecipata e racconto comune.
Il progetto si articola in una duplice mostra. La prima è ospitata al Castello Carlo V di Lecce, nel Bastione S. Trinità, dove, insieme a documenti d’archivio della storica serie “Misurazioni” del 1979, realizzata da Cresci in Basilicata, ed una selezione di fischietti e documenti dal Museo della Ceramica di Cutrofiano, sono esposte trenta fotografie realizzate da Cresci a Cutrofiano, foto che al termine della mostra andranno a costituire il primo nucleo di arte contemporanea del museo. La seconda esposizione ha luogo nello spazio di Linea, in cui sono presenti i lavori dell’artista che riflettono il rapporto tra fotografia e grafica, ma anche monografie, alcune delle quali oramai storiche, che evidenziano il suo processo creativo.
Intervista con Mario Cresci
Oggi sei tra i maestri della fotografia italiana. Nel corso della tua carriera ti sei distinto per un approccio etnoantropologico alla ricerca dell’immagine. Celebri i tuoi “anti-reportage” in Basilicata realizzati tra anni Sessanta e Settanta. Ma quale necessità ti spinse allora ad adottare questo approccio?
«Sono andato in Basilicata dopo aver frequentato una scuola di design. Con me avevo una preparazione di tipo strutturalista: conoscevo la Bauhaus, la scuola di Ulm, Gombrich, Warburg e il pensiero di quanti avevano studiato i linguaggi della comunicazione e della fotografia. Mi portai dietro quel tipo di sapere che, una volta giunto in Basilicata, incontrò la cultura contadina di quegli anni. Quando arrivai al sud, dunque, avevo quel tipo di sapere. Solo successivamente ho approfondito Ernesto De Martino e gli studi di tipo etnoantropologico. Sono arrivato a Tricarico nell’estate 1966, con un gruppo di lavoro diretto dal sociologo Aldo Musacchio, il nostro mentore, calabrese, straordinario meridionalista. Mi trovai immerso in una realtà del tutto nuova.Sviluppai lì la mia visione del meridione, una visione “antireportagistica”. Già allora ritenevo che il mondo contadino fosse rappresentato in fotografia, ma anche in pittura, con molta retorica. Per questo iniziai a fotografare seguendo il mio sguardo che era distaccato da quel tipo di cultura. Credo sia nata allora una nuova visione del mondo contadino. Più tardi mi sono spostato a Matera dove ho vissuto per vent’anni. A Tricarico la prima fotografia che ho scattato è stata il ritratto della madre di Rocco Scotellaro. Aveva ancora gli occhi umidi per la perdita di quel figlio straordinario. Io stesso mi sono sentito avvolto dalla sua figura modernissima».
In Basilicata è nata una parte importante della tua ricerca, ma celebri sono anche i cicli dedicati alla Puglia. Che rapporto senti di avere con la questa regione?
«In Puglia ho molti amici che hanno contribuito a farmi lavorare: Carlo Garzia, Geppi De Liso, Gianni Leone, Enzo Velati, e in tempi più recenti, Pio Tarantini, con cui ho fatto una lectio magistralis all’Università di Bari. Uno dei miei primi workshop quando vivevo a Matera l’ho tenuto proprio a Bari, nella sede del circolo Arci. La Puglia la trovavo una regione diversa dalla Basilicata, con una vitalità legata al mare e con una storia imbastita da personaggi come Franco Cassano, che pure ho conosciuto e mi ha affascinato molto. La Puglia è una terra anch’essa piena di magia, in cui mi hanno affascinato le molte produzioni artigianali come quella dei cola cola dei Loglisci a Gravina o dei giocattoli in legno di Giustiziero a Maglie. Ho fotografato quasi tutte le botteghe artigiane di Puglia. Ho anche fatto un lavoro di ricerca per il Ministero dei Beni Culturali di allora. Nel realizzare quelle fotografie ho sempre tentato di dare una immagine dignitosa dei personaggi che fotografavo, personaggi di intensa fantasia e vivacità culturale. L’aspetto umano mi ha molto affascinato sia in Puglia che in Basilicata».
Del 1984 è la tua partecipazione a “Viaggio in Italia” a Bari. Che ricordi conservi di quella esperienza, oggi da molti considerata una rivoluzione per la fotografia di paesaggio in Italia?
«Una rivoluzione nata dal mio contatto con Luigi Ghirri. Conoscevo da tempo Luigi e insieme agli amici di Bari lo invitammo a venire nel Sud. Lui non era mai stato a Bari. Venne e fece delle straordinarie fotografie. Io l’anno prima avevo tenuto una mostra all’Expo Arte grazie all’interessamento di Pietro Marino, altro personaggio a cui sono molto legato, storico dell’arte e giornalista di grande spessore. Con gli amici di Bari facemmo di tutto affinché “Viaggio in Italia” si tenesse nella locale Pinacoteca e non altrove. Fummo sostenuti dalla direttrice, Pina Belli D’Elia, donna eccezionale, che intuì l’importanza della mostra. Liberò per noi le sale e consentì che la mostra si facesse in Pinacoteca. La mostra partì da Bari ma presto ebbe uno sviluppo in tutta Europa. Io avevo conosciuto Pina Belli D’Elia prima di “Viaggio in Italia”, quando, insieme a Garzia, Francesco Spada ed altri due autori, partecipai ad un’esposizione dedicata al mondo contadino intitolata “I grandi esclusi”, titolo tratto da una frase di Gramsci. Una grande mostra fotografica che passò un po’ inosservata rispetto a “Viaggio in Italia”, ma che fu altrettanto importante. In “Viaggio d’Italia” c’erano fotografie fatte nel Sud che riportavano il mezzogiorno italiano ad un’attenzione nazionale. Con quella mostra il paesaggio italiano assunse una dimensione davvero innovativa: non più pecorelle e pastori ma il paesaggio in sé stesso come realtà degna di attenzione. Il tutto fuori da ogni retorica. Quest’anno ricorre il quarantennale di “Viaggio in Italia” e per questo la mostra si rifarà e sarà ospitata al Paris Photo e all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi».
Quando fotografi cosa cerchi nell’immagine? Qual è il tuo processo creativo?
«Io considero la fotografia un processo cognitivo per conoscere una realtà che non è una realtà, è la trasformazione di una realtà che diventa un’altra attraverso la fotografia. Fotografo con l’intenzione non documentare ma di interpretare ciò che vedo, sapendo che ciò che vedo non è quello che vedo. Noi dobbiamo fotografare ciò che gli altri non vedono. È questo il compito di chi usa la macchina fotografica e non solo. Nel 1968, ad esempio, a Roma, ho seguito per un po’ Pino Pascali, poco prima che morisse. Anche lui da buon pugliese era un grande creativo. Ricordo che mi diceva: “Io faccio dei lavori che mi ricordano il mare, mi ricordano la guerra, ma non rappresento nulla di ciò che vedo sui giornali”. È un processo creativo questo che credo appartenga a tutti gli artisti. Io poi sono più vicino all’arte contemporanea che non al pensiero fotografico in senso stretto perché mi ha segnato di più l’esperienza con gli artisti che non quella con i fotografi. Son più vicino ad autori come Pascali, Boetti e agli artisti dell’Arte Povera che non alla fotografia italiana in senso stretto. Io, inoltre, disegno e uso altri mezzi oltre alla fotografia. Nella mostra di Lecce ad esempio ci sono anche trasformazioni di tipo grafico. Cerco sempre un’apertura “naturale” verso altri linguaggi».
Per un decennio sei stato direttore dell’Accademia di Belle Arti Carrara di Bergamo. Quali sono per te i requisiti di una formazione di qualità per un artista?
«Il requisito fondamentale è la conoscenza della storia dell’arte, del cinema, del teatro, delle nuove tecnologie. I futuri artisti non devono sapere solo di fotografia, di pittura, di scultura, di un solo mezzo insomma. Devono essere consapevoli che le immagini nascono dalla lettura, dalla visione e dalla continua esplorazione del lavoro altrui. Devono essere operatori con grande passione per la conoscenza».
Tieni di frequente workshop e lectiones magistrales. In queste occasioni cosa cerchi di condividere con i fruitori o di trasmettere loro?
«Cerco sempre di essere non accademico ma di esprimere ciò che sono e ciò che vivo. Io continuo ad insegnare all’ISIA di Urbino. Con i miei studenti faccio workshop, lavoro con loro. Trasmetto loro la mia esperienza personale ma anche le mie conoscenze. Discuto con loro sul significato di fare arte. L’artista oggi non può restare chiuso nello studio. Nel suo spazio può fare ciò che vuole ma sempre con un orecchio e un occhio su ciò che avviene al di fuori. Deve sentirsi partecipe della contemporaneità e deve essere pienamente consapevole del suo essere non al di fuori ma dentro la storia».
E durante le mostre? Quale ti auguri sia la reazione o l’apprendimento del pubblico in visita alle tue esposizioni?
«Mi auguro che le persone abbiano di me un’idea problematica nel senso che devono comprendere che il mio lavoro è ricco di implicazioni etiche e sociali. A volte la parola “etica” come “utopia” fa paura. Generalmente si parla di “idea utopica” per indicare ciò che non si farà. Franco Cassano invece ha parlato di utopia come di qualcosa che abbia a che fare con la fantasia e con l’arte. L’utopia agisce nel momento in cui si produce arte. In questo senso mi auguro che le persone colgano nelle mie parole un’esperienza di vita che è convincente, che per lo meno li arricchisca con qualcosa che prima non conoscevano».
Alla luce dei molteplici cambiamenti sociali e tecnologici avvenuti nell’ultimo quarantennio, quale pensi sia il ruolo della fotografia oggi e quali le sue possibilità?
«La fotografia sta subendo una rivoluzione di cui non ci rendiamo ancora pienamente conto. Pensiamo agli effetti dell’intelligenza artificiale e della realtà aumentata. Non c’è più il negativo. Io a volte ho persino difficoltà a parlare di “fotografia” intesa come “scrittura con la luce”. Tuttavia per me la fotografia è ancora “saper vedere” attraverso un obiettivo. Che questo sia digitale o analogico ha poca importanza. Probabilmente il termine “fotografia” è un po’ invecchiato ma rimane in esso la possibilità di “vedere attraverso”. È questo l’aspetto fondante la fotografia, indipendentemente dallo strumento utilizzato, sempre più tecnologicamente avanzato».
Cosa puoi raccontarci della mostra in corso a Lecce?
«Credo sia una delle mostre più interessanti che abbia mai fatto. È una mostra piccola ma molto intensa. L’idea è nata dalla volontà di mettere in relazione la realtà di linea, la scuola di fotografia, e il Museo della Ceramica di Cutrofiano. Il museo nelle sue stanze ha questi bellissimi fischietti, piccole sculture fatte a mano da un artigiano, Pinu Rizzo. Mi piaceva che il museo, attraverso il mio lavoro, potesse aprire uno spazio dedicato all’arte contemporanea. Il museo diventa così non solo un contesto espositivo per la ceramica ma anche un luogo in cui ospitare ogni anno un artista che vi interviene e vi lascia alcune sue opere. Così il museo di Cutrofiano può diventare un luogo in cui l’arte contemporanea legge la storia, le botteghe, i luoghi, le persone. Il mio lavoro è stato ancora volta quello di dare una svolta di tipo interpretativo agli oggetti che ho scelto di fotografare. Mi sono servito degli oggetti ma anche di persone per creare nuove visioni. Non still life ma opportunità per interpretare gli oggetti, i luoghi, la storia, la cultura. Con me hanno lavorato due bravissimi giovani, Ilenia Tesoro e Antonio Caroli, che hanno fatto bellissime foto che saranno esposte da linea insieme ad un’altra parte del mio lavoro, più grafico. Trenta mie foto, invece, rimarranno in donazione al Museo di Cutrofiano».
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