Il filosofo Aristotele sosteneva che per sua natura, l’essere umano è un animale politico, un essere sociale. Secondo questo pensiero l’uomo tende a ricercare l’altro, ha bisogno del contatto con gli altri per riconoscersi. Al contrario, il filosofo Hobbes sostiene che la natura dell’uomo sia cattiva ed egoista, una condizione che pone gli uni con gli altri in continua lotta. Secondo quest’ultimo, il motivo per cui nascono le società di uomini è per porre fine, attraverso un patto, a questa lotta altrimenti infinita. In questo senso la socialità ha tratti utilitaristici: non nasce dalla voglia di comunità, ma dall’utilità che se ne trae.
Le neuroscienze contemporanee hanno dimostrato, e continuano a farlo, quanto la natura umana non possa prescindere dal contatto con l’alterità. Noi tutti abbiamo bisogno del contatto con gli altri per sviluppare la nostra identità. Se questo venisse meno, se noi non avessimo la possibilità di crescere in socialità, probabilmente saremo tutti piccoli Mowgli.
Sulla base di questo, ha dunque ragione Aristotele?
È indubbio che la natura dell’essere umano sia quella sociale, come infatti sosteneva anche il filosofo Martin Buber “non esiste un io senza un tu che mi guarda”. Chi saremo se non ci fosse qualcuno davanti a noi che ci riconosce? E chi saremo se a nostra volta non riconoscessimo l’alterità?
Se è vero tutto questo, purtroppo non è lontano dalla realtà nemmeno quanto sosteneva Hobbes. L’essere umano sa essere spietato, e lo fa continuamente. Osservando la storia, non sono pochi gli esempi in cui la crudeltà umana si è manifestata. L’essere umano ha il bisogno estremo di predominare sugli altri, al solo scopo di sentirsi invincibile e onnipotente. Sono molti i modi in cui lo fa. Usando la violenza fisica e psicologica, attraverso le armi e spesso attraverso la parola. Il presente articolo vuole soffermarsi proprio su quest’ultimo punto: la parola come strumento di critica.
Non si vuole parlare qui di critica intesa come quella disciplina che studia razionalmente e in modo approfondito i caratteri di opere letterarie, musicali, d’arte e quant’altro. Ciò che in questo articolo si intende affrontare è la critica intesa come giudizio negativo che non è volto alla costruzione o all’arricchimento.
Da sempre siamo circondati – e noi stessi ne facciamo parte – da un’alterità che tende a giudicare chi ha di fronte. Il motivo? Probabilmente quel bisogno di cui si è accennato poco fa: predominare sugli altri e soprattutto sentirsi migliori.
In quella che Bauman definisce “società liquida”, il concetto di critica come mero giudizio sterile si sta manifestando sempre di più e sempre più spesso. L’era dei social network ha amplificato tutto, contribuendo all’affermazione sempre più forte dello strumento di critica privato del concetto filosofico e profondo che invece ha e dovrebbe avere. Come sempre, il problema non risiede nello strumento, in questo caso i social network, ma dell’utilizzo che se ne fa. La tastiera diventa l’arma di distruzione, e lo schermo si trasforma nello scudo che, mantenendo la nostra identità anonima o comunque virtuale, ci fa sentire al sicuro.
Il problema è che lo strumento è virtuale, ma tutti noi no.
Il nostro account è virtuale, l’account della persona a cui muoviamo una critica sterile e cattiva è virtuale, ma colui o colei che la riceve no, quella è in carne ed ossa. Noi tutti siamo carne e ossa. Come tali abbiamo emozioni, sensazioni, e più semplicemente abbiamo un cuore. La maggior parte dei commenti che si leggono sotto post di ogni genere, sono quasi sempre composti da una, massimo due frasi, che si traducono spesso con un’offesa che non può intendersi “critica”.
In questo senso la parola ferisce, ma non ferisce per poi guarire e migliorare. Ferisce per il solo gusto di farlo. Le critiche, quelle vere, quelle degne di essere chiamate tali, sono quelle che portano ad un miglioramento. Quelle che si leggono in rete, la maggior parte delle volte non sono critiche costruttive, sono invece vere e proprie cattiverie. In questo senso, quanto sosteneva Hobbes trova la sua verità: l’essere umano sa essere estremamente spietato e crudele.
È forse troppo utopico sperare che i social network vengano sfruttati nel loro vero potenziale? Come dunque la possibilità di connetterci gli uni con gli altri e creare una profonda alterità che abbatta confini e muri? Che ci riconosca uguali, ma al contempo diversi? Che impari ad apprezzare questa differenza come possibilità di arricchimento? È troppo utopico sperare che i social network vengano utilizzati come strumento utile all’apertura e al dialogo teso alla critica costruttiva?
Abbiamo gli strumenti più potenti di tutti i tempi, dovremo solo comprendere che tale potenza non deve essere utilizzata per sovrastare l’alterità, ma per riconoscerla e valorizzarla. Solo in questo modo saremo in grado di valorizzare realmente anche noi stessi, attraverso una critica costruttiva che ci migliori vicendevolmente.
Vanessa Romani per ArtSpecialDay
L’articolo “La penna ferisce più della spada”: la critica nell’era dei social network sembra essere il primo su Artspecialday.