Era quasi mattino quando rientrammo a casa ed ancora parlavamo infervorati sul da farsi, su come cambiarlo quel mondo che girava al contrario. Proprio non voleva capire quali nobili passioni muovevano idee e spiriti sotto la luce della luna e tra i profumi del vino. Ci sarebbe stato tanto da fare, da lavorare sodo, affinchè i voleri comuni si realizzassero e prendesse così forma quella lancia solidale che si sarebbe irta al cielo, baluardo di chi come noi avrebbe continuato a vivere di sogni e di consapevolezza delle proprie radici. Ma la rabbia affiorava spesso tra i nostri doscorsi innaffiati da limoncello, nocino e liquori autoprodotti. “La società gradisce le apparenze” e se fossero state unite alla sostanza la formula sarebbe stata vincente. Un mazzetto di prezzemolo o di rosmarino, raccolto con decorosa umiltà, se abbellito da rafia e nastri, da fili di canapa e cotone, avrebbè sì perso la propria identità nostrana ma avrebbe attirato di certo un’attenzione particolare di chi oltre al prodotto desidera l’estetismo in tutto! Era arrivato il momento di vestire la terra ed i suoi frutti con l’abito da sera che il contadino non era stato fino ad allora capace di cucire. C’era bisogno del sarto adatto, dell’organizzazione tale affinchè terra e frutti destassero attenzione artistica in un’unicità di bellezza e profumi che lasciassero trapelare però l’identità contadina a cui appartenva. Poteva essere una svolta epica, un punto di partenza. Ma il contadino, quel povero cristo che da sempre ha dovuto rinunciare alle lancette sostituendole col meteo e con l’avvicendarsi di lune e Stella, avrebbe mai condiviso un tale compromesso? Avrebbe mai riposto nelle nostre tropo morbide e sognatrici mani le sue più care figliole? Sarebbero stati disposti a soprassedere all’accecante miraggio del “guadagno” massificato della grande distribuzione? Per l’ennesima volta ci stavamo scontrando a voce alta con quello che è il “comune senso del giusto” e che ci attribuiva così gli attributi di utopici pazzi.
E lui che conosceva bene le dinamiche dei campi e dei mercati, lo sapeva benissimo: “un contadino lavora un intero anno per svendere ciò che raccoglie, intriso di sudore e fatica, a chi senza scrupolo nè amore gli offrirà un piatto caldo da poter porre sul tavolo. E questi si arrichirà, avido ed ingordo, rivendendo a peso d’oro quanto ha rubato fingendo di fare elemosina al povero contadino”. Il Sole già riscaldava i vetri della cucina e gli ultimi bicchieri si svuotavano nella gola e fu in quell’alba che spegneva pian piano i nostri sogni che deliziosa come sempre sopraggiunse mia madre. Aveva ben sentito i toni accesi da adolescenti che avevano accompagnato le nostre ultime due ore in cucina. Come suo solito, sorridente, si accinse a preparare il caffè del mattino e intanto ci chiese di cosa stessimo discutendo così animatamente. Riacquietando gli animi condividemmo con lei come il lavoro e la fatica costituissero un invito alla schiavitù ed all’impoverimento materiale e morale a tutto vantaggio di mediatori senza scrupoli, premiati dal mondo e dalla società, e perfino dal povero contadino che, nel cedere ciò per cui ha versato lacrime e sudore, ringrazia e si prostra al suo subdolo benefattore.
E’ il mediatore ciò che la società premia, è il mediatore a vincere ogni battaglia e quindi la guerra, è il mediatore ad arricchirsi più di chi lavora duramente. E’ chi riduce in schiavitù a trarre profitto. E’ questa la geometria sociale a cui bisogna sottostare. Il caffè era ormai sul fuoco e quasi si cominciava a sentirne il profumo e lei, razionale ed umana, nella sua sconcertante capacità di analisi ci sorrise con occhi di Madre e ci disse: “Bene… allora facciamo tutti i mediatori no?!”.