Sembra che oggi il range delle emozioni che siamo in grado di provare si sia estremamente ristretto. Lo immagino simile al nostro diaframma toracico, che in teoria potrebbe – e dovrebbe – avere un excursus fino ai 4 o addirittura 6 centimetri, ma oggi la maggior parte delle persone dei paesi sviluppati lo ha bloccato, rigido, inchiodato. Se va bene si sposta di due. Non a caso il diaframma è un muscolo strettamente legato alle nostre emozioni, così come a tutta la nostra fisiologia organica, che con quelle emozioni è ben più legata di quanto ci faccia comodo credere. Non saprei dire quindi se il nostro stile di vita – sedentario, stressante e disfunzionale – abbia bloccato prima il nostro respiro e poi le nostre emozioni; o, viceversa, la pressione sociale e la cultura in cui siamo immersi ci abbiano convinti più o meno consciamente che le emozioni siano qualcosa di sgradevole, da ignorare e da anestetizzare: probabilmente queste due spinte convergono. Oggi ci troviamo in una specie di limbo anestetizzato, in cui ci siamo disabituati a vivere le nostre emozioni, soprattutto quelle più forti, in una sorta di evitamento costante delle esperienze che le potrebbero far scaturire: dalla rabbia all’amore istintivo. Mettiamo tutto a tacere, in apnea, e forse per paura di esplodere, implodiamo. Non ci concediamo nulla. Qualcuno infatti dirà che le emozioni non sono mai state viste di buon grado dai savi, ma la condizione è diversa. I saggi le emozioni le sapevano vivere e osservare, e da esse sapevano allontanarsi, non le confondevano con il proprio sé, ovvero non ci si identificavano. Le emozioni infatti sono stati psico-emotivi passeggeri, risposte a stimoli che ci attraversano, di varia natura.
David Lynch – che ha segnato al punto la storia del cinema da guadagnarsi pure l’aggettivazione del suo cognome – queste emozioni è in grado di farle emergere con una potenza inaudita. In particolare, per quanto riguarda il suo film del 2001, Mulholland Drive, disponibile su MUBI e incluso nella rassegna E l’Oscar va a…, Lynch spande paura e amore, ma anche quel desiderio tutto particolare che innesca la curiosità, l’ambizione creativa, la tensione erotica. Più in generale sembra che ogni espediente formale in questo film confluisca nella descrizione della pulsione umana verso l’indesignato. Nella poetica di Lynch qualcosa di simile a uno straniamento continuo setaccia le emozioni dai loro altari inconsci, riportandole agli spettatori, e spostandole anche attraverso le scene e le loro scenografie e location, come se ciascuna rappresentasse a sua volta un teatro nel teatro. Un luogo raccolto, ovattato, in cui il profondo può salire in superficie, a volte attraverso il linguaggio, altre attraverso un colore, un’immagine, un suono, spesso attraverso il ricordo, che genera uno stimolo sensibile e sinestetico, capace di aprire un varco nella coscienza.
Tra i film più apprezzati dalla critica del regista tanto che gli valse il Prix de la mise en scène al Festival di Cannes e una nomination all’Oscar come Miglior regista, Mulholland Drive doveva inizialmente essere l’episodio pilota di una serie, che avrebbe dovuto ripetere l’esperienza di Twin Peaks, e di cui invece alla fine non si fece più nulla. Così lui la trasformò in un lungometraggio, affidandole un finale, aperto, spalancato, quelli che tanto vengono criticati nelle scuole di scrittura, i cui allievi vengono convinti di non poter scegliere questo tipo di espedienti formali perché “non sono Lynch”, appunto. Ma sospetto che Lynch fosse Lynch anche prima di essere riconosciuto come uno dei più grandi registi contemporanei.
Mulholland Drive – che Lynch definisce come “Una storia d’amore nella città dei sogni”, eppure viene identificato come thriller psicologico – fin dall’inizio gioca tutto sull’identità, e l’illusione che guida la nostra esistenza. Una donna, che sta per essere uccisa, in seguito a un assurdo incidente d’auto perde la memoria, Rita (Laura Harring). Un’attrice, Betty (Naomi Watts), che la accoglie nella casa in cui si è appena trasferita, in cui a sua volta è ospite di una famosa zia assente, come se tutto questo fosse normale. Un regista bizzoso che vuole decidere tutto, Adam (Justin Paul Theroux). Lynch in questo film mette a tema tutti i topoi della riflessione filosofica sul teatro, e quindi sulla maschera; sull’aderenza a un Io; sulla sua poliedricità e frattura; su come questo sentimento di identità si innesti in un corpo, sia un’esperienza fisica, ma al tempo stesso una sorta di allucinazione mentale; su come gli altri a loro volta ci vedono, ci ri-conoscono, ci identificano. Lynch sembra aprire un dialogo con Quell’oscuro oggetto del desiderio film del 1977 diretto da Luis Buñuel, in cui le due attrici Carole Bouquet e Ángela Molina si alternano nello stesso ruolo di Conchita, giocando quindi sia su interpretazione che percezione, relazione tra oggetto e soggetto. Durante il primo provino di Betty negli studios di Hollywood il regista suggerisce ai due attori, sibillino come lo stregatto di Alice nel Paese delle meraviglie: “Don’t play for real until it gets real”, e il sapore della scena che Betty aveva provato insieme a Rita poco prima cambia completamente, dimostrando ancora una volta che se “acting is reacting”, vivere alla fin fine è effettivamente recitare. La frase – attribuita all’acting coach Sanford Meisner – vuole enfatizzare l’importanza dell’ascolto del contesto e delle reazioni autentiche a esso nello sviluppo psicologico di un personaggio.
Avvenimenti assurdi aprono varchi nel reale abitudinario e conosciuto, riportando i personaggi a un qui ed ora, a stento sostenibile, a una piena presenza. Lo straniamento – concetto teorizzato da Viktor Borisovič Šklovskij nel 1916 – fa deragliare lo spettatore dai binari dell’automatismo percettivo, dandogli un’impressione vivida e insolita dell’esistenza. Lynch usa il cinema in maniera simile al linguaggio poetico, puntando i riflettori sul linguaggio stesso e non su un suo presunto scopo pratico, o strumentale – che potrebbe anche essere “soddisfare” o intrattenere lo spettatore, insomma, dargli ciò che vuole, o che si aspetta. Lynch disattende costantemente le aspettative mettendo subito in chiaro che ciò che racconta è del tutto fuori dal comune, “strano e meraviglioso”, come sosteneva Aristotele. Lo straniamento, quindi, fa apparire l’oggetto come una visione e non come un riconoscimento.
Lynch costringe lo spettatore a sviluppare una capacità di sguardo di molto superiore a quella che è abituato a esercitare. Per cercare di capire e cercando di capire si lascia trascinare da Lynch in territori sconosciuti. Inerme, impreparato, senza essersi portato con sé gli strumenti utili, o dell’utile, per poter affrontare quella situazione. Il nostro desiderio di dar senso alle cose ci obbliga a restare incollati a una trama che non è una trama, perché ha come collante non la logica, ma potentissimi momenti di pathos, che emergono dalle tenebre dell’inconscio – non a caso questo, come altri film di Lynch, è un film estremamente buio, scuro, in cui torna costantemente il richiamo del bosco, in cui le donne si addentrano come ipnotizzate, rapite, andando oltre la paura, attraversando la selva, venendo inghiottite dalle piante, dalla notte, per seguire un desiderio di vita.
Il mondo onirico parla, crea realtà, le lingue si mescolano. Dall’amnesia di Rita emerge in sogno il nome di un locale, il Club Silencio. In cui durante una sorta di grottesco cabaret un uomo parla in uno strano esperanto di illusioni sensoriali, realtà e finzione. No hay banda. It’s all recorded. Finzione e realtà sono indissolubilmente intrecciate. Pure, il misterioso Cowboy che all’esatta metà del film ha salvato la vita ad Adam torna sul cadavere di Diane, una misteriosa donna bionda, come Betty, e successivamente Rita. Il Cowboy appare, col suo cappello bianco, luminoso, ordinandole di svegliarsi, e catapultandola in un’altra realtà. E ci si rende conto che ad apparire così inquietante, fin dall’inizio del film, è proprio la consapevolezza della fragilità del reale, e del nostro Io, insomma quanto sia fallace la presa della nostra percezione verso il mondo, come le promesse dell’illuminismo a loro modo siano state bugie.
Non a caso Lynch è un grande promotore della meditazione trascendentale, pratica che muove proprio da questo fondamento e che informa anche tutte le sue opere. Siamo stati educati secondo il vecchio adagio che il sonno della ragione genera mostri. Ma quei mostri esistono lo stesso, ci aspettano, il sonno della ragione semplicemente ci permette di contattarli, di allungarci verso di loro, al riparo dallo sguardo indiscreto della società, normativa e giudicante, pronta a riportarci sulla cosiddetta retta via e a svergognarci, per restare coesa. In pochi si “risvegliano”, in pochi hanno il coraggio di osservare la morte negli occhi per rinascere, per ritrovare una spinta vitale uguale e contraria. L’essere umano vive di opposti, anzi, si muove costantemente nel dominio degli estremi, per esporsi alla luce è necessario sapersi muovere nel buio, per non perdersi nell’oscurità è necessario non temere di essere abbagliati dai riflettori del mondo. Ma queste due condizioni antitetiche, esplorate da Lynch così bene, sembrano volerci ricordare che in queste condizioni la nostra vista, a cui tanto ci aggrappiamo per capire noi stessi e gli altri, viene sensibilmente meno, ci abbandona, dobbiamo quindi imparare a far riferimento ad altri istinti. Kill the lights, ordina Adam, regista del film in cui finisce per recitare Rita. Spegnete la luce. Lasciate spazio al buio, al segreto.
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L’articolo “Mulholland Drive”, di Lynch, gioca sull’identità e sull’illusione che guidano la nostra esistenza proviene da THE VISION.