Nel nome di Dio: oggetti rituali della Nigeria in mostra a Napoli

Nel nome di Dio: oggetti rituali della Nigeria in mostra a Napoli

I nomi di Dio sono un numero compreso tra lo zero, cioè quello da evitare di pronunciare ma che compare 6mila volte nella Bibbia ebraica, e i 99 dell’Islam. Non calcolando, ma solo per comodità, i 9 miliardi ipotizzati da Arthur C. Clarke nel suo famoso racconto di fantascienza. Tanti nomi, allora, quanti sono i modi di pensare qualcosa (o qualcuno) che va ben oltre l’immaginazione terrena e poi anche di scriverlo su pergamena, carta, cuoio, legno o pietra, perché anche le lettere, gli alfabeti, la scrittura, sono un miracolo. “Nel nome di Dio Omnipotente. Pratiche di scrittura talismanica dal Nord della Nigeria”, mostra visitabile a partire dal 7 maggio nella Cappella Palatina del Maschio Angioino di Napoli, segue una precisa metodologia critica e sceglie di evitare la rigida separazione tra le categorie di religione e di magia, concentrandosi essenzialmente sulle opere, sugli oggetti, sulle forme e sulla storie tramandate da questi materiali.

80 manufatti riferibili alla cultura hausa del Nord della Nigeria, tra cui manoscritti coranici e poetici, tavole in legno, metallo e pelle con formule apotropaiche e iconografie degli animali della savana per la protezione della casa e della persona, ricettari popolari sulle scienze esoteriche, talismani, oggetti per la divinazione. Un viaggio attraverso il tempo, il mito e il pensiero, per scoprire un’estetica apparentemente distante ma presente sottotraccia nella cultura occidentale,  a partire almeno dalla Avanguardie del ‘900, fino al filone postcoloniale degli ultimi anni.

Ne abbiamo parlato con Gigi Pezzoli, Presidente del Centro Studi Archeologia Africana presso il Museo di Storia Naturale di Milano e curatore della mostra insieme ad Andrea Brigaglia, ricercatore presso il Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale.

Dal nord della Nigeria al sud dell’Italia. Ci può spiegare come si è sviluppata l’idea di questa mostra e come e perché è arrivata a Napoli?

«Il progetto viene da lontano, dalle ricerche di etnostoria che il Centro Studi Archeologia Africana di Milano svolge da anni in Africa: documentare le manifestazioni culturali del passato che si intersecano con la contemporaneità.

Come talvolta capita, lo spunto è stato occasionale. Un giorno di circa 20 anni fa mi trovavo a Lomé in Togo; un mercante di origine nigeriana è arrivato con un carico di tavole coraniche provenienti dall’area Hausa. Avevo già viste tavole coraniche in altri paesi saheliani ma queste erano speciali: grandi, con una forma elegante e fitte scritte in arabo. Non mi sono posto il problema della loro autenticità; anche se non particolarmente antiche, erano genuine e con una forte carica di mistero.

Ho raccolto un centinaio di tavole di diversa tipologia. Una prima rappresentativa dei progressivi gradi di apprendimento del Corano, fino alle tavole-diploma di fine ciclo delle scuole islamiche. Una seconda, concernente le tavole magico-talismaniche destinate a funzioni terapeutiche, per la protezione della persona e della casa. Quella ricerca si concluse nel 2013 con un’esposizione a Rimini, al Museo degli Sguardi.

In tempi recenti, nel 2019, mentre ero alle prese con una mostra di arte “tradizionale” africana, uno dei visitatori, Andrea Aragosa, titolare di Black Tarantella, mi ha chiesto di pensare ad un progetto culturale ed espositivo a Napoli. Questa mostra sulle tavole coraniche è la prima tappa. Dunque, un’altra circostanza occasionale che abbiamo riempito di nuovi contenuti scoprendo che Napoli è il posto giusto. Qui vivono decine di migliaia di nigeriani, in larga parte invisibili. La conoscenza delle loro tradizioni è limitata e spesso caratterizzata da stereotipi provenienti da un immaginario negativo. Ma Napoli è anche un luogo di incontro e di meticciato, e poi c’è la sede di un’università, L’Orientale, che da decenni propone un percorso di studi che include l’insegnamento di storia, culture e lingue dell’Africa, inclusa l’hausa, cioè l’idioma della regione dalla quale provengono gli oggetti in mostra».

In esposizione, più di 80 opere tra manoscritti, elementi decorativi e talismani. Da quali collezioni provengono queste preziose testimonianze e in quali modi raccontano la pratica della scrittura sacra e rituale?

«Tutte le opere provengono da collezioni italiane. La mostra tratta due componenti fondamentali: la prima di natura artistica, l’altra storico-antropologica. L’idea è di presentare materiali esteticamente accattivanti all’interno di un ampio quadro relativo alle pratiche di scrittura dellʼIslam africano contemporaneo nella Nigeria settentrionale. L’esposizione si sviluppa su due percorsi differenti ma complementari: uno, più propriamente devozionale, sfocia nei Corani manoscritti, icone rappresentative della cultura calligrafica; l’altro, magico-talismanico documenta i manufatti degli specialisti nelle scienze esoteriche».

Oltre alle rilevanti componenti storiografiche e documentarie, si può parlare di un canone estetico o almeno stilistico legato alla produzione di questo genere di oggetti?

«Direi di sì, stiamo parlando di oggetti che provengono da un mondo antico che ha stratificato canoni propri, sofisticatissimi e complessi».

La Nigeria è uno dei Paesi dell’Africa che, storicamente, ha avuto più contatti con l’Europa – nel bene e nel male – e molte delle Avanguardie artistiche europee del Novecento sono debitrici delle suggestioni formali provenienti dalle opere “tribali”, per esempio il caso delle maschere rituali e delle statuine votive per il Cubismo. Si può rintracciare una continuità di questa influenza anche nell’arte e nella cultura visiva contemporanee?

«Il discorso sarebbe lunghissimo. La Nigeria è un paese estremamente vasto e vario; la regione di cui parliamo è islamizzata da quasi mille anni e, con una schematizzazione grossolana, non è dall’area Hausa che provengono le opere “tribali” che tanta parte hanno avuto nella vicenda del “primitivismo” novecentesco. Quanto alla contemporaneità e alla cultura visiva, basterebbe citare la cosiddetta cinematografia di Nollywood, un fenomeno di portata mondiale che anche nel paese hausa ha un enorme sviluppo».

Diversi musei europei stanno affrontando il retaggio colonialista delle proprie collezioni. Per esempio, il Museum am Rothenbaum di Amburgo ha promosso la formazione dell’archivio digitale Digital Benin, dedicato ai reperti provenienti dall’ex Regno africano. D’altra parte, molti Paesi africani stanno avviando un dialogo con quegli stessi musei, per avviare un processo di restituzione dei manufatti trafugati dai loro territori. Ci può spiegare, in sintesi, questa situazione?

«Quello della “restituzione” del patrimonio culturale è e sarà un tema complesso nei rapporti tra i paesi africani e le ex potenze colonizzatrici. Mi pare che almeno due questioni debbano trovare un punto di equilibrio: da una parte il riconoscimento agli africani della proprietà morale e culturale delle loro opere d’arte (ancor più importante di quella fisica) e dall’altra l’universalità di queste espressioni, quindi patrimonio dell’intera umanità. Esistono poi temi pratici che rischiano di essere strumentalizzati: i paesi africani sono organizzati per conservare e tutelare questo patrimonio? C’è chi sostiene di sì. C’è chi sostiene di no con motivazioni pratiche ma anche chi lo fa con motivazioni razzistiche. I veri assenti dal dibattito rischiano di essere i popoli, tirati da una parte e dall’altra, vittime della retorica del potere alla quale anche l’arte non sfugge».

Visitabile gratuitamente fino al 10 luglio 2021, nel rispetto delle norme anti Covid vigenti, la mostra è stata ideata e prodotta da Andrea Aragosa per Black Tarantella, in collaborazione con il Centro Studi Archeologia Africana di Milano, con il sostegno della Regione Campania, del Comune di Napoli, della Scabec – Società campana beni culturali e con il patrocinio dell’Università L’Orientale e del MAECI – Ministero degli affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

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