Edvard Munch straccia il suo cuore a pezzi sulla palette di tele vive. Il pittore, effigiato del titolo di “iniziatore del sintetismo norvegese“, nasce a Løten il 12 dicembre 1863. La famiglia è numerosa ma troppo presto scolora: muore la madre di tubercolosi, seguita dalla sorella. Le perdite sono i primi passi di un destino inclemente e raschiano una scorza già cagionevole, debole fisicamente e psicologicamente instabile. Il piccolo Munch impasta le lacrime nel colore e lo schiaffa in faccia a un’umanità atona, a cui urla, ma che non risponde. Riempie di schizzi i vuoti della mente e del corpo e, tenta, del cuore, sotto lo sguardo mesto e protettivo del padre e della zia.
Ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio del consumo e la follia.
Il suo deragliare si accompagna a quello autorevole dello scrittore Edgar Allan Poe. Anche il padre di Edvard è tentato e strozzato dal pietismo morboso e dalla sindrome maniaco-depressiva. È una voragine che non sbatte sul fondo, approfondita dalle crisi psichiche della sorella Laura e dal trapasso del fratello Andreas, che muore subito dopo il suo matrimonio.
Vivo con la morte.
Alle ugge interiori si addossano quelle esterne: la famiglia falciata vive in perenne ristrettezza economica. Le tele di questo periodo scolpiscono i disagi economici, con interni squallidi, popolati da gente triste.
Edvard è un altro studente inappetente, che scivola da una classe alla successiva senza trovare motivazione nell’inchiodarsi ad un banco di scuola. Nel 1879 inizia a frequentare un istituto tecnico di ingegneria e prende dimestichezza con il disegno prospettico. Salta alla Scuola di Disegno di Oslo e poi alla Scuola d’Arte e Mestieri nel 1881. Il padre liquida le sue passioni come «empio commercio».
Ben presto si sporca della vita assurdamente affascinante e follemente acculturata dei circoli bohémien. Cavalca l’imperativo «Scrivi la tua vita!» dell’amico Hans Jæger, volendo dire di «esseri viventi che hanno respirato, sentito, sofferto e amato…».
Scava nel sé più profondo e grumoso, tenendo un “diario dell’anima” che traccia il suo percorso di riflessione e crescita personale. Rompe con le matrici impressioniste e naturaliste della sua formazione, e esonda verso le terre vergini dell’interiorità, con le “tele dell’anima“. Sbotta di indignazione la società. Le sue immagini sono flash zoppi, acciaccati e incompleti, ma essenziali, e pregni. La completezza dell’opera d’arte dipende dalla compiutezza del desiderio espressivo dell’artista. Emozioni, e tutto il resto è subordinato. Allineandosi all’ideologia simbolista, predilige l’immagine alla raffigurazione.
Da una borsa di studio viene traghettato a Parigi, all’Atelier di Bonnat, con cui ritraccia i rudimenti del nudo artistico. Il pomeriggio si infila nei padiglioni dell’Esposizione Universale e tra i musei più prestigiosi. All’hotel Belvedere, dove soggiorna per sanarsi, lontano dal troppo di Parigi, vive un’emozione fortissima per Paul Gauguin, Vincent van Gogh e Henri de Toulouse-Lautrec.
L’esperienza del singolo per lui era paradigma di varie declinazioni del vivere umano. Edvard Munch ardiva a chiudere un progetto di vita: il Fregio della vita sarebbe stato il suo compendio, in linea con il concetto utopico che vuole le opere tessere di un disegno unitario, rappresentativo del destino dell’uomo. Si straccia le vesti e si guarda dentro, Edvard, e ne trova solo inappellabile sofferenza. Morte che spezza, e spazza via, il senso della vita.
L’arte è il sangue del nostro cuore.
Dopo essere stato vessato dal nazismo, che lo tacciava di “arte degenerata”, Edvard Munch morì nella sua tenuta a Ekely, il 23 gennaio 1944.
Francesca Leali per MIfacciodiCultura
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