Il wifi della baraccopoli, come dice lui stesso, non è un granché ma riusciamo a metterci in collegamento. Così Nicolò Govoni, 27 anni, originario di Cremona, ci risponde da Nairobi. Anzi più precisamente da Mathare, una delle baraccopoli più sovraffollate non solo del Kenya ma dell’Africa intera. Qui seicentomila persone vivono in 5 chilometri quadrati.
In sottofondo ci sono voci di bambini, l’abbaiare di un cane, qualche interferenza nella connessione. Siamo (solo virtualmente) all’interno della scuola internazionale che Nicolò Govono, che tra le varie cose è stato tra i nominati al Nobel per la Pace 2020, ha aperto da poche settimane con la onlus Still I Rise, di cui è presidente e cofondatore.
Com’è iniziato tutto?
«Quasi per caso. Ho cominciato il mio percorso nel mondo del volontariato in India, sette anni fa, in modo molto entusiasta ma anche sprovveduto. Ho avuto la classica adolescenza difficile, bocciature, problemi vari e sono partito per l’India per cercare qualcosa dentro di me. Ho sempre accarezzato l’idea utopica di fare il dottore perché volevo aiutare la gente. La mia vita è cambiata, non perché l’esperienza fu bella. Avevo pagato l’organizzazione per questo progetto di volontariato e invece era il volunturismo, ovvero quel volontariato che si spaccia per qualcosa che non è».
Com’è diventato cooperante?
«Sono rimasto in India quattro anni, mi sono accorto di questo errore, non volevo lasciare i bambini di quell’orfanotrofio sapendo di traumatizzarli un’altra volta, ovvero abbandonandoli ancora, come accade quando te ne vai e sparisci. È stato questo il mio inizio, tanti errori che hanno portato alla consapevolezza verso quello che ha portato a un volontariato etico, poi la cooperazione».
Cosa fate con Still I Rise?
«Apriamo scuole di due tipi: di emergenza nei contesti più impermanenti, quindi Grecia e Siria per adesso. Sono scuole informali, che fanno educazione informazione, sempre di qualità ma che chiaramente si sposano al contesto di urgenza, poco prevedibile, di questi luoghi, con un focus sull’assistenza medica, alimentazione, vestiario. In Turchia e Kenya invece facciamo scuola internazionale, che è il passo in più rispetto alla scuola di emergenza. Lo facciamo perché quelli in cui lavoriamo sono Paesi con difficoltà ma più stabili e che possono accogliere tante persone dai paesi limitrofi».
Cos’è una scuola internazionale?
«Una scuola internazionale è una cosa molto specifica. Noi offriamo un diploma, con un percorso di studi che dura sette anni, riconosciuto nel mondo, che è anche molto costoso e disponibile in moltissime scuole nel mondo ma noi lo offriamo gratis. È questa la rivoluzione educativa in cui noi crediamo molto. I bambini che arrivano da noi sono bambini che fanno molta fatica nella loro vita. Sono adorabili, svegli acuti, ma vengono a scuola con i gomiti squarciati, sporchi, noi cerchiamo di creare una rottura di questo equilibrio per cui ci sono scuole per i figli di ambasciatori e politici e baracche. Noi vogliamo creare un’intersezione tra questi due mondi».
Cosa significa offrire un’educazione di questo tipo in contesti come la Siria?
«Non è scontato, lascia un grande segno nelle persone. La Siria è agghiacciante perché fino a nove anni fa era un paese del tutto diverso. Nessun siriano immagina che sarebbero finiti così. Era un paese molto prospero e il fatto che oggi i bambini non vadano a scuola è una follia».
Come possiamo spiegare questa follia in termini concreti?
«Prima che noi inaugurassimo il centro di emergenza c’era una bambina iscritta, che è morta pochi giorni prima di iniziare la scuola a causa di una epatite. Ecco, non si può morire così nel 2020. Ho maturato molto questa rabbia, che si muoia di fame, di freddo, accanto alla Turchia, non è concepibile. Io sarei molto felice di chiudere tutto nel momento in cui non ci fosse più bisogno del nostro lavoro, il nostro obiettivo sarebbe non lavorare qui».
Che rapporto avete con le famiglie?
«Non dimenticherò mai una delle madri che era venuta a iscrivere qui suo figlio e uscendo ha detto “è un sogno che si realizza”. Per me è molto triste, perché sappiamo che c’è abbastanza ricchezza per distribuirla, per sfamare tutti. È già prodotto il capitale necessario semplicemente è distribuito in modo peccaminoso. Siamo consapevoli di quanto sia incrinato il mondo come macrosistema. Penso che lo step sia intendere il mondo come circa sette miliardi di mondi che valgono ognuno come gli altri ed è un successo cambiarli uno ad uno. Di scuole aperte da onlus ce ne sono un’infinità ma l’impatto reale qual è? Il nostro obiettivo è creare un impatto sistemico, per cui cambi il futuro di quel bambino, quindi della sua famiglia, della sua comunità».
I momenti di sconforto come li supera?
«Ce ne sono tanti, penso sia normale. Quest’anno in particolare, perché le scuole hanno chiuso più volte, in base ai lockdown e al trend del covid in quell’area. Quando chiudi la scuola qui i bambini dove vanno? In certi contesti chiuderla mette ancora più a repentaglio la popolazione e i bambini. Per esempio mi chiedo: se avessimo potuto aprire prima la scuola in Siria, quella bambina sarebbe viva? Non lo so, questo pensiero però rimane. Il covid qui in Kenya è presente in proporzione minore ma ci sono le regole e le seguiamo, anche se nelle baraccopoli non accade. C’è stato ovviamente un calo di donazioni, noi non accettiamo i fondi delle istituzioni e nel momento in cui la gente non lavora non può donare. È stato un anno un po’ vigliacco.
Come ha vissuto in questi mesi difficili la distanza dalla sua famiglia?
«La mia famiglia è di Cremona, sono stato malissimo. I miei nonni si sono presi il covid a marzo, ero certo che mio nonno fosse spacciato, li chiamavo tutti i giorni, piangevo mentre loro parlavano e alla fine si sono salvati entrambi. Io stavo in Turchia, anch’io ero chiuso in casa, con una depressione professionale, avevamo appena aperto la scuola e l’abbiamo dovuta chiudere. Potevo farmi evacuare e tornare in Italia ma avevo paura magari di portare il Covid alla mia famiglia poi mi chiedevo cos’avrei potuto fare?».
Il 2o21 è appena iniziato. Qual è l’obiettivo?
«Dipende moltissimo da come il 2021 si presenterà. Noi sogniamo in grande poi spezzettiamo questi sogni in passi possibili. Io credo molto nei sogni, poco in quelli che sono alimentati solamente dall’entusiasmo. Vorremmo aprire un’altra scuola internazionale in sud america, in supporto alla crisi venezuelana, che ora è una di quelle che produce più profughi al mondo e di cui non si parla mai. Poi ci sono situazioni di emergenza in tantissimi Paesi, dove io sognerei di aprire scuole di emergenza: Yemen, Congo, Bangladesh, Afghanistan. Se le donazioni diventano stabili possiamo fare tanto. Se penso al 2021 sono: è una nuova chance».
Come s’immagina “da grande”?
«Mi piacerebbe essere un po’ più tranquillo di oggi, con una Still I Rise ben solida e strutturata. Mi piacerebbe avere una famiglia, se penso a lungo termine vorrei creare qualcosa che sia anche intimamente mio. Tra vent’anni i miei figli magari saranno più grandi, m’immagino in un paese dove posso fare il lavoro che amo e mio figlio vada in una di queste scuole. Questo è molto importante per me. Vedo troppo spesso scuole “per poveri” dove gli internazionali non manderebbero mai i loro figli».
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