Questo articolo è pubblicato sul numero 51 di Vanity Fair in edicola fino al 22 dicembre 2020
Roberto Bolle ricorda molte cose: «Il sorriso di mio padre che apriva la porta di casa con un’aria di festa. Il treno che presi da Vercelli per Milano che non avevo mai visto per l’audizione alla Scala. La magia del Natale con la preparazione che precedeva la gioia: una metafora di tutta la mia vita». Intorno alle stanze nelle quali ha danzato, questo ballerino di provincia elevato al ruolo di divinità pagana ha visto girare molte cose e ora, a qualche mese dai 46 anni indossati in aperto spregio all’anagrafe, si accorge che
non tutto, tra un passo e l’altro, è sempre andato a tempo di musica: «So di aver rinunciato all’infanzia, all’adolescenza e alla giovinezza e sono anche consapevole che quei periodi non torneranno più. Sono stato un soldato. Uno sempre in marcia. Ma non sono uno di quei soldati che ha scritto dal fronte lettere colme di rimpianto o nostalgia. Il mio destino me lo sono scelto. Al mio futuro sono andato incontro».
Come si sceglie un destino?
«Con lucidità, tenacia e determinazione. Darsi alla danza in maniera totalizzante ha significato non cedere alla sconforto e non cambiare strada quando ogni indizio consigliava di abbandonarla. Siamo esseri umani: abbiamo alti e bassi. Per resistere ai secondi mi sono dovuto dare un’impostazione mentale. Nel mio mestiere la cura del corpo è fondamentale, ma senza la testa non vai da nessuna parte».
Cosa c’era nella sua testa da bambino?
«Un sogno. Imitavo i passi di danza che vedevo nei varietà televisivi e sognavo di replicarli, di studiare e di iscrivermi a una vera e propria scuola. Nella villetta a due piani con orto e giardino di Trino Vercellese non trascorreva giorno senza che lo chiedessi come il più bello dei regali. I miei titubavano. Sospettavano fosse un capriccio e non un vero desiderio. D’altra parte tra una riunione ai boy scout, una lezione di pianoforte e una di nuoto, le mie giornate erano già abbastanza piene».
La prima vera prova?
«Al cinema Orsa di Trino, per un saggio scolastico. Avevo preparato per settimane quel momento e una volta in scena, a metà esibizione, persi la scarpetta. Volò via. Avevo sette anni. Nei miei ricordi, come in una canzone della Nannini, è una scena al rallentatore. Rimasi paralizzato. In preda al terrore e a un panico che non mi permettevano di proseguire. Mi sembrò che il mondo all’improvviso fosse finito. Un sentimento che chi danza impara a conoscere presto. Si cade spesso, si sbaglia, si compie un errore. Chi fa il mio mestiere, nel tempo, impara soprattutto una cosa».
Quale?
«Che non esiste caduta dalla quale non ci si possa rialzare. Ti confronti con l’errore fin dall’inizio e capisci in fretta che in quest’arte ogni aspetto è dominato dalla precarietà e che tutto può finire da un momento all’altro. C’è qualcosa che ci abbraccia e che va oltre la passione e il talento».
Cosa?
«Il caso. Provi per mesi in sala ballo e poi all’improvviso inciampi. Una caduta può cambiare il corso di una carriera. Ci vuole umiltà, senso del brivido, capacità di sopportare
la solitudine. La danza ti porta a migliorare corpo e spirito. Regala sogni e magia. Ma come per tutto esiste un prezzo».
Quanto è stato alto quello della solitudine?
«La solitudine è stata una grande compagna di viaggio. Mi ci sono trovato immerso e ho dovuto farci i conti. Per indole sono una persona abbastanza solitaria, ma all’inizio, quando viaggiavo per assolvere impegni molto difficili davanti ai quali mi sentivo inadeguato, doverli affrontare da solo fu dura. Poi, avrò avuto circa ventisette anni, è cambiato tutto e ho iniziato ad assaporare la solitudine per quel che è: non più un limite, ma una conquista. Una forma di libertà. Un lasciapassare per la concentrazione assoluta. Potevo girare per le città, declinare le giornate con i miei tempi, lasciare una valigia sfatta per settimane senza che nessuno potesse dirmi: “Roberto, metti in ordine”».
È stato un bene?
«Forse una necessità. Dopo due giorni, in qualunque posto mi trovi, genero un caos drammatico. Maglioni accatastati sulle poltrone, pantaloni per terra, piatti nel lavabo. Angoli di vero e proprio imbarazzo».
È sempre stato così?
«Che io ricordi, più o meno sì. Dai 12 anni ho sempre vissuto da solo e non ho memoria di una stanza veramente ordinata. La prima da single la affittò mia madre a Milano. Da una signora anziana con la quale il dialogo era quasi inesistente. Quando non mangiavo alla mensa della Scala, scaldavo le cose che mia madre mi aveva preparato per superare la settimana».
Lei a Milano voleva andare a ogni costo?
«Neanche per idea. Prima dell’audizione comunicai a mia madre tutti i dubbi che mi attanagliavano. “Non mi impegnerò”, le dissi solenne nello scompartimento del treno mentre ci avviavamo alla stazione di Milano e poi alla Scala. Per staccarmi dalla famiglia mi sembrava molto presto. Volevo solo danzare, ma non capivo l’importanza di farlo così lontano da casa. Feci comunque il provino e poi tornammo a Trino. Per qualche settimana dimenticammo persino quella discussione».
Poi?
«Poi un giorno suonò il postino e dalla sua borsa sbucò la lettera di ammissione all’Accademia della Scala. Una cosa enorme. Mi emoziono ancora a ripensare a quel momento. Fu una scena alla Billy Elliot. Il postino che suona, la lettura di quelle poche righe che mi comunicavano laconicamente che ce l’avevo fatta, l’esistenza che cambiava all’improvviso, davanti agli occhi».
Chi le stette vicino?
«Tutta la mia famiglia. Ma la chiave di volta fu mia madre. Mi decisi anche grazie alla sua lungimiranza. Mamma – una persona che mi ha sempre lasciato la libertà di scegliere e di rinunciare da un momento all’altro se avessi ritenuto che l’esperienza fosse troppo pesante da sopportare – mi aiutò a vedere quell’avventura da un’altra prospettiva».
Ci volle coraggio per stravolgere le consuetudini?
«Dalle comodità familiari del giorno prima mi vidi precipitato in un ambiente rigoroso e competitivo. Ebbi qualche crisi. Mi capitava di piangere: avvertivo un buco affettivo,
un’assenza, un vuoto. Più di una volta sono stato sul punto di prendere un treno di ritorno, ma ho resistito all’impulso. Restare a Milano era importante, per fortuna riuscii a capirlo. E a vedere i risultati».
Importante fu l’incontro con Nureyev.
«Spuntò all’improvviso, come un’apparizione, alla fine di una sessione di allungamento. Avevo 15 anni, faticavo a credere fosse vero. Mi disse “fammi vedere cosa sai fare”
e rimasi senza fiato accarezzando la tentazione di fuggire all’istante. La vinsi e andai alla sbarra. Ero sudato, stravolto, desideravo soltanto che finisse tutto il prima possibile. Conclusi gli esercizi mi chinai a riprendere il borsone e lui mi fermò. Mi diede qualche consiglio sulla postura e mi chiese di ricominciare. Eseguii. Qualche giorno dopo, poi, toccai il cielo con un dito. La produzione di Nureyev mi contattò per offrirmi il ruolo di Tadzio in Morte a Venezia che avrebbero portato all’Arena con le coreografie di Flemming Flindt».
Cosa accadde?
«Che la direzione dell’Accademia non mi fornì il permesso perché mi riteneva ancora impreparato per un simile salto nel buio. Mi disperai, imprecai e pensai che un treno così non sarebbe passato mai più. Per capire che dietro a quel rifiuto c’erano solide ragioni ci volle una profonda assunzione di maturità. L’incontro con Nureyev, comunque, in qualche modo mi ha cambiato la vita. Se ci ripenso mi attraversa un senso di fatalità, quasi di predestinazione».
Cosa significa la danza per lei?
«Una vocazione che mi ha permesso di dare il meglio a ciò che di meraviglioso, luminoso e sacro ha quest’arte. L’ho sempre vista come un ambito che va al di là della mia persona e che mi ha restituito bellezza, armonia e ricchezza interiore. Ha forgiato la mia sensibilità. Se non avessi fatto il ballerino attraversando esperienze interpretative, emotive e fisiche così intense non avrei potuto lavorare a così stretto contatto con me stesso sia a livello umano che emotivo».
La danza è un atto d’amore?
«Emily Dickinson al riguardo dice una cosa definitiva: Che sia l’amore tutto ciò che esiste. È ciò che noi sappiamo dell’amore».
La sua riservatezza sul tema amoroso è leggendaria. Sembra quasi lei sia d’accordo con un altro poeta, William Blake: Non cercare mai di dire al tuo amore/ amore che mai non si può dire/ perché il vento gentile si muove/ silenzioso, invisibile.
«Lo spazio che va oltre il palco, quando il sipario si chiude, per me è molto importante, personale e assolutamente privato. Ho sempre tentato di custodirlo gelosamente. Non
dico che debba essere importante per chiunque allo stesso modo, ma per me lo è. Sono ovviamente tutti liberissimi di raccontare i propri amori e la propria sessualità, ma non è la mia natura e non lo sarà mai. Ho sempre cercato di distinguere la mia immagine privata da quella pubblica e ho ferma intenzione di continuare a farlo».
Come mai?
«Il mio privato è privato come quello di chiunque altro e non credo servano parole in più. Ho sempre parlato con la danza e non sento di dover dire altro o fare chissà quale
rivelazione. Poi, certo, esistono le violazioni del privato. Violazioni che ho sempre combattuto e che spesso sconfinano nell’invasione e nell’abuso. Violazioni che ho sempre considerato arbitrarie e illegittime. Esistono le fotografie rubate. Esiste la curiosità morbosa che non fa bene a nessuno e non è ciò che le persone e i giornali dovrebbero cercare da me. Penso di portare con me dei valori che chi li apprezza dovrebbe cercare di godere senza cercare altro».
Contro le invasioni della sua privacy aveva tuonato Enrico Lucherini: «Quando si arriva a certi livelli che cosa ci può importare se uno va a letto con donne o con uomini? Ai miti non si fanno domande banali». È stato complesso essere un mito?
«Mito è una parola eccessiva. Preferisco esempio. Sento il peso della responsabilità di quello che ho fatto e faccio ogni giorno e anche per questa ragione cerco di calibrare ogni passo e di porre una grande attenzione alle mie scelte e ai miei gesti. So di avere gli occhi puntati addosso e di essere un modello per molti giovani. Cerco di assolvere al meglio il compito e raccontare a chi vuole impegnarsi con la danza che un’altra strada verso il successo che non passi per il lavoro, il sacrificio e il sudore non esiste. Le scorciatoie non mi sono mai piaciute. Non ci ho mai creduto».
Guardarsi allo specchio cela il pericolo del narcisismo. Ha rischiato di amarsi troppo in questi anni?
«Forse ho rischiato, ma non sono e non mi sento narciso. Il rischio che corro, invece, proprio perché mi rendo conto di essere sempre molto concentrato su di me, su quello che faccio e sui miei progetti, è l’egocentrismo. Il mio lavoro è una parte imprescindibile di me e so che questo, in un rapporto di coppia o di amicizia, è un aspetto difficile da contenere e comprendere anche perché a quell’aspetto io do il massimo dell’importanza. Il percorso che ho deciso di intraprendere, voglio essere onesto, per me è più importante di tutto il resto. Ed è un patto duro da tollerare, per chiunque».
Non ha mai pensato di ricalibrare le priorità?
«Sinceramente? Per adesso, mai. So che devo dare il massimo e siccome non posso darlo in ogni ambito della mia vita, tutto il resto nel mio caso deve fare un passo indietro. Chi non capisce questa cosa, purtroppo, non può far parte della mia vita se non in maniera marginale».
Si sente dominato da un’ossessione?
«Ho sempre inseguito la perfezione, ma non sono mai stato una persona ossessiva. All’inizio ero meno indulgente di adesso, dopo un po’ di anni ho iniziato a perdonarmi, a
godermi i risultati con più serenità, gli applausi e le soddisfazioni che in un tempo lontano non mi gratificavano completamente. Se mi guardo indietro mi accorgo di essere cresciuto molto e di aver avuto anche una grande fortuna».
In Rocco e i suoi fratelli di Visconti si sostiene che la fortuna si debba anche provocare.
«È verissimo. Le condizioni ideali per emergere a volte capitano e a volte vanno scovate. Me ne sono accadute di incredibili senza che le avessi cercate solo perché magari ero
al posto giusto nel momento giusto».
Ora è al posto giusto nel momento giusto?
«Ora sono dove avrei voluto essere tanti anni fa. Sono stato sempre onesto e leale con gli altri e in cambio ho ricevuto onestà e lealtà. Se mi osservo vedo un uomo di 45 anni che si sente realizzato, sereno, felice e maturo sia come artista che come uomo».
E non ha mai nostalgia dell’immaturità?
«Ne ho così tanta che uno spazio per l’immaturità, se non addirittura per l’infantilismo, me lo lascio sempre. Di tanto in tanto mi ci abbandono perché lo trovo consolante. Sa che le dico? A pensarci bene è lo spazio per danzare più prezioso che ho».
Per abbonarvi a Vanity Fair, cliccate qui.