«Attiro a me cose strane ed eccezionali», esordisce.
Olga Tokarczuk è minuta, pelle liscia, luminosa. Da quando ha capito che dopo i 50 una donna diventa invisibile, ha deciso di fare dei propri capelli un vessillo: la chiamano «la scrittrice con i dreadlock», ma lei spiega che si tratta di un’antica acconciatura polacca, la plica polonica, che risale al Cinquecento.
Da bambina – una bambina cresciuta piuttosto libera coi genitori insegnanti in una comunità rurale nella Bassa Slesia – il suo idolo era Maria Sklodowska di Varsavia, sposata Curie. L’anno scorso, le hanno assegnato il Nobel per la Letteratura, quindicesima donna nella storia.
La incontro al festival Pordenonelegge dopo che ha percorso in auto i 750 chilometri dalla sua casa nella Valle di Kłodzko, al confine con la Repubblica Ceca, dove il clima assomiglia a quello toscano. «È ormai qualche anno che io e mio marito viaggiamo con calma, un’occasione per parlare visto che casa è diventata un ufficio. Questo tempo lungo ci fa prestare attenzione al mutamento dello spazio intorno a noi. Venendo qui ci siamo fermati al Museo di Storia dell’Arte di Vienna. Oggi c’è la tendenza a cercare sempre il nuovo e a dimenticare ciò che si è raccolto alle nostre spalle. In questa corsa folle abbiamo perso la capacità di capire le metafore, un modo di pensare “alla lettera” alla base dei crescenti fondamentalismi, per i quali tutto è bianco o nero».
Tokarczuk ricorda bene quando, da ragazza, non poteva viaggiare con il suo passaporto. La libertà arriva dopo il crollo del Muro: lei è una laureata in Psicologia devota a Jung e parte per Londra, che le mette la testa nel mondo spalancandole i testi femministi che la formano in maniera definitiva. Da allora, i confini sono la sua ossessione: attraversarli, la condizione fondamentale dell’essere umano. La sua idea di letteratura è tutta qui. Uno dei suoi libri più famosi e splendidi s’intitola I vagabondi. Dentro, è nascosto un mantra: «Lo scopo di ogni mio pellegrinaggio è un altro pellegrino», un passaggio del testimone tra chi abbandona un posto e chi lo raggiunge.
Dopo l’esordito nella poesia nel 1989, passa alla narrativa e, scontenta dei generi in circolazione, ne inventa uno che chiama «romanzo costellazione» dove mette in relazione dei frammenti, alla stessa maniera in cui un viaggiatore unisce le croci su una cartina o gli antichi leggevano il firmamento per farne zodiaci e premonizioni. È diventato il suo «stile». Sontag diceva che «lo stile è un mezzo per insistere su qualcosa», e quello su cui Tokarczuk insiste è un certo senso liquido di libertà, il sottrarsi alle regole degli altri, prendere in considerazione i diversi livelli della realtà, un misticismo senza dio. In sintesi: un elogio del movimento contrapposto alla staticità.
I suoi libri, in Polonia, hanno grande successo, ma nemo propheta in patria. Dopo il Nobel, il ministro della Cultura, uno del partito di destra Diritto e Giustizia, dice di non essere mai riuscito a finire un suo libro. Per il romanzo I libri di Giacobbe (da noi nel 2021) la accusano di «tradimento» e i neonazi la minacciano. Oltre a I vagabondi, in Italia sono usciti Guida il tuo carro sulle ossa dei morti e Nella quiete del tempo, appena ripubblicato (Bompiani, pagg. 320, € 18; trad. di Raffaella Belletti), con i suoi personaggi archetipici e stravaganti in bilico tra racconto orale e riflessione filosofica.
Tra le cose «strane ed eccezionali» che Tokarczuk attira, però, il Nobel è (quasi) minoritario perché le è capitato qualcosa di ancora più straordinario: un marito, il traduttore Grzegorz Zygadło, che non ha vergogna a dire «il mio lavoro, ora, è prendermi cura di Olga». Significa: sono il suo autista, il segretario, l’assistente, il cameriere.
Che rivoluzione. Come la vive lei, da femminista?
«Il problema è che non esiste ancora un posto per i mariti delle scrittrici e delle artiste, mentre sulle mogli degli scrittori si è scritto molto. Grzegorz è un pioniere, sta tracciando il sentiero. Quando in Polonia uscì un’intervista su questo, ricevette molte congratulazioni ma, da parte di alcuni uomini, anche reazioni costernate del tipo “ma come, stai dietro a una donna, perché non ti dedichi alla tua di carriera?”».
A 30 anni, dopo una crisi, partì per un lungo viaggio in Oriente. Negli ultimi anni, invece, trascorre più tempo a casa. Come è cambiato, per lei, il viaggio?
«È diventato sempre più doloroso. Viaggiare non è mai qualcosa di innocente, né da un punto di vista ecologico né morale. Il turista si trova spesso nella condizione di osservatore della povertà altrui, eccitato dall’esotismo dei Paesi che visita. Il momento rivelatore per me è stato quando, durante un viaggio nel Sud Est asiatico, siamo arrivati su una spiaggia ricoperta di plastica. Ci siamo guardati e abbiamo detto basta».
In Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, gli animali si rivoltano contro l’uomo. Pensa che i cambiamenti climatici in atto siano una specie di «vendetta» della natura?
«Se pensassimo così applicheremmo delle categorie umane a qualcosa che umano non è. Non credo che la natura abbia queste intenzioni, vorrebbe dire evocare una dimensione metafisica nella quale non credo. Ma ciò che è sicuro è che l’essere umano si sia dimenticato di fare parte della natura. Riconoscerlo implicherebbe un radicale processo di cambiamento, mentre i più hanno paura di dovere cambiare».
La lingua polacca è androcentrica come l’italiano, il genere maschile ha sempre una posizione di privilegio. Quanto è importante, per lei, provare a cambiare la società rendendo più paritaria la lingua?
«Molto, ci stiamo provando anche in Polonia. L’esperienza dice che ogni rivoluzione passa attraverso la lingua, che è lo strumento con cui creiamo la realtà. Perciò sono molto favorevole alla femminilizzazione delle lingue, perché proprio lì è annidata la violenza patriarcale di genere».
Dopo i 50 le donne diventano invisibili. Cosa si può fare perché questo non accada?
«Penso che una donna completa e creativa dovrebbe essere in grado di trasgredire le regole e andare oltre alle aspettative di bellezza e attrazione che si hanno nei suoi confronti».
Foto: MACIEK NABRDALIK, VII/Contrasto