Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Erica Muller.
Other Identity: Erica Muller
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Da una parte (con il lavoro ABody per esempio) fotografo principalmente persone che fanno parte della mia comunità e che quindi hanno a che fare con il mio privato ed il mio intorno di significato. Con questo lavoro in particolare presento una riflessione sul genere e su come viene performato a livello corporeo. Con questa rappresentazione l’intento è quello di costringere in qualche modo chi guarda a non potersi orientare nell’unilaterale attribuzione del genere, ma ad aprirsi all’ascolto di un’immagine.
Dall’altra (Lovely Unknown) la fotografia è frutto di un’azione sociale di rottura con l’ordinario attraverso una provocazione del vivere sociale circostante e parla più generalmente alla libertà del corpo e alla sua possibile espressione sessuale. Spesso sono persone incontrate per caso che accettano di essere ritratte nella loro espressione intima, privatamente o pubblicamente. In questo caso la fotografia rappresenta l’esperienza e la storia che l’ha generata, l’arte sociale di sovvertire un qualsiasi momento dato.
In entrambe vi è una medesima ricerca estetica che gode nel trovare una certa relazione o tensione – come mi piace chiamarla – tra le parti di una figura o di una composizione tale da renderla nel suo complesso al limite dell’astratto o dello scomposto, lasciando appena intravedere qualcosa che va oltre ciò che si può vedere ad occhio nudo e che rimanda – per me – alla creazione di un significato in relazione al referente. È uno dei motivi per cui spesso nella mia fotografia il volto non viene ritratto».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Credo possa essere quella di documentare rivendicazioni d’esistenza e necessità che non prescindono da un lavoro personale di decostruzione intorno al sentire l’identità – soprattutto di genere – in relazione anche al contesto contemporaneo».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Mi reputo un personaggio come condizione esistenziale: necessario per poter vivere. E per questo ho bisogno anche di vivere l’opposto: cioè uno spazio dove poter essere e non-essere intimamente, che è la parte più creativa. Ripongo anche molta fiducia nello strumento dello scandalo – o azione scandalosa – come possibilità di mettere in discussione rischiosamente la propria apparenza (pubblica) – questo per me è essere anche ciò che faccio e rappresento con la mia fotografia. Fare parte di ciò che si fa per me è fondamentale per non avere un’impostazione predatoria».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Un valore nella fotografia credo sia sempre quello di documentare qualcosa e il modo personalissimo in cui si realizza ciò svela il valore della rappresentazione. Questo valore fa parte del significato complessivo e spesso è una sottilissima intuizione che si rivela nel tempo o rimane lì appena intuita e il cercare di spiegarla diventa ricerca artistica».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sicuramente ne ho lo stile di vita. Per una definizione più pubblica credo debba darla il pubblico».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Poeta. È la forma d’arte che sento più affine a me oltre alla fotografia, che a sua volta mi suscita la stessa emozione poetica».
Biografia
Erica Muller è una fotografa Fetish Bdsm, transfemminista e che partecipa al dibattito queer. Segue da anni il panorama erotico underground e i più importanti play parties europei, investigando da un punto di vista estetico la questione del genere e in generale tutto ciò che attiene il corpo, la sessualità e l’identità. Si occupa anche di moda e arte. Vive a Milano dove ha il suo studio.
L’articolo Other Identity #92. Altre forme di identità culturali e pubbliche: Erica Muller proviene da exibart.com.