Paolino Libralato, professione scenografo (in via di estinzione)

Paolino Libralato, professione scenografo (in via di estinzione)

Soppiantato dalle moderne proiezioni videomapping e dalle stampe digitali, il lavoro dello scenografo artigianale, colui che dipinge interamente a mano gli enormi fondali di scena per gli spettacoli, è una professione in via di estinzione.
Uno dei tre artisti «superstiti» in Italia, tuttora in attività con commissioni importanti per i maggiori teatri nazionali e stranieri (dalla Fenice di Venezia all’Opéra di Parigi per citarne solo un paio) vive in provincia di Treviso, ha 62 anni e si chiama Paolino Libralato.
Lavora anche per privati, oltre che per il settore pubblico, fra cui show room e sfilate di case di moda famose. Come un lillipuziano che maneggia il pennello di Gulliver, Paolino dipinge la gigantesca tela inchiodata a terra, muovendosi sopra come in una danza. Il suo è il lavoro di un demiurgo che imita la realtà e definisce una nuova spazialità che dura solo il tempo della rappresentazione: due, al massimo tre ore. Un’idea che da orizzontale diventa verticale, da superficie piana si fa prospettiva. Un mestiere che esige la conoscenza perfetta della Storia dell’Arte: come dipingere un quadro, dove però la perizia richiesta è il controllo delle proporzioni e delle dimensioni su grandi formati. Un mestiere che comprende una parte tecnica e una più artistica.

Ma il lavoro dello scenografo ha più a che fare con la tecnica o con l’arte?
«Con tutte e due. Anche se la seconda non viene riconosciuta, forse perché la nostra categoria è sempre stata un po’ in ombra. Noi facciamo un gesto dell’effimero, realizziamo qualcosa che poi viene buttato via. Non è un quadro che si incornicia o un monumento che si sposta. Il nostro è un atto d’amore incondizionato. Personalmente, anche se alla fine quel fondale verrà accantonato o mandato al macero, non mi interessa. Lasciatemi dipingere! Se ho questa favolosa possibilità di
decorare una scenografia mi sento completo e felice al solo immaginarla compiuta! C’è tanto tempo e pensiero dietro, ma è nutrimento per me. Non sento fatica quando sono sopra a quella tela inchiodata a terra. Anzi».

Davvero la scenografia dura solo per quel preciso spettacolo?
«Solitamente sì. Può durare anche decenni, in verità, ma dipende da chi la prende a dimora e la custodisce. Il teatro, come ogni realtà, è fatto di persone, nella fattispecie di magazzini e tournée, e pochi si curano di verificare se il fondale è stato strappato o ha bisogno di essere rimessato. Ho dipinto scenografie che al termine dello spettacolo sono state gettate via, ma ho fornito la scenografia per Lo Schiaccianoci di Čajkovskij  in Oklahoma e quel lavoro, per esempio, ha fatto
poi, oltre all’America, il giro dell’Europa».

Qual è il materiale base per realizzare una scenografia?
«Tela di cotone o tulle trasparente di diverse grammature, detto gobelin, pennelli da scena lunghi un metro con setole miste di crine e pelo di cinghiale che per morbidezza sono come uno strumento musicale. E poi terre colorate impastate con colla acrilica diluita in acqua, così da far rimanere le tele morbide, essendo ignifugate. Se si utilizzasse una colla più consistente, come si faceva un tempo, si otterrebbe un incartocciamento poco estetico. Con la mia tecnica, invece, la tela diventa un foulard».

Da quanti anni fa questo lavoro?
«Il prossimo anno festeggio 40 anni: ho cominciato il 22 febbraio 1982. Era un lunedì quando sono entrato per la prima volta in un laboratorio di scenografia e ci ho trascorso ininterrottamente 33 giorni di fila, nottetempo, lavorando sabati e domeniche comprese».

La sua formazione è quindi direttamente sul campo?
«Frequentavo l’Accademia delle Belle Arti di Venezia in quel periodo e al secondo anno volevo ritirarmi per mancanza di professori. Poi un giorno andai a trovare a casa il docente e artista Giovanni Soccol il quale, consapevole del mio talento, mi convinse a continuare, proponendomi un compromesso: studiare e lavorare al contempo. Mi annunciò che a breve sarebbe arrivato un nuovo docente di scenotecnica, il professor Giuseppe Ranchetti, il quale aveva da poco aperto un laboratorio di scenografia chiamato La Bottega Veneziana ed era alla ricerca di allievi per un lavoro commissionato dal Teatro Regio di Torino. Quel 22 febbraio 1982 venne a prendermi con l’auto e mi portò in laboratorio, dove vidi la fatica stesa a terra: tele enormi, chiodi, secchi di colore, pennelloni, odore di colla di coniglio. Nessuno mi aveva mai spiegato prima, in termini pratici, cosa significa mettere su un’idea ed elaborarla: con gli zaini in spalla per spruzzare il colore di base per terra, come si fa con il verderame per le viti, e un collega che ti viene appresso con una lunga pennellessa per stendere l’imprimitura. Dopo quel primo lavoro ci fu commissionata la scenografia di una Turandot per il Festival Pucciniano a Torre del Lago, che si svolgeva all’aperto, e quindi edificammo una rossa muraglia cinese di cartapesta e grandi draghi sinuosi. Al termine di quel lavoro avevo in animo di andare a lavorare al Teatro comunale di Treviso come servo di scena e attrezzista. Lì fu il professor Ranchetti a fermarmi: “Se la tua aspirazione è andare da Rambaldi in California a fare ET – mi ammonì – sono d’accordo, ma il tuo talento è dipingere”. Venne a casa mia a parlare con i miei genitori per convincermi a finire l’Accademia. Cosicché proseguii, alternando lavoro a studio. Ma quest’ultimo era la parte più riposante».
Nella sua carriera professionale quante scenografie ha realizzato?
«Circa 250, fra spettacoli di balletto, opera e prosa. Oltre a qualche evento di gala internazionale come Il Ballo del Doge».

La scenografia più grande in termini di dimensioni che ha fatto?
«La Bella e la Bestia di Beni Montresor per il Grand Théâtre de Bordeaux. E poi il Jérusalem di Giuseppe Verdi per il Teatro Carlo Felice di Genova, su scene di Danilo Donati che curò anche i film Pinocchio e La Vita è bella con Roberto Benigni. Erano entrambe scenografie che sfioravano i 5 mila metri di scena, dei quali ho dipinto solo una parte. Ma anche Il Flauto Magico, sempre di Montresor, era oltre 2 mila metri di tela. Tuttavia, uno dei primi spettacoli veramente impegnativi
per misure e tempi di esecuzione dove battei ogni record, fu il Vespro Siciliano, balletto firmato da Menegatti e Fracci su scene e costumi di Luisa Spinatelli. Furono dipinti 11 fondali in 33 giorni, per mano mia e di una collaboratrice».

E qual è il lavoro che ricorda con maggiore emozione?
«Il Flauto Magico di Beni Montresor. Mi ha fatto sognare, quella scenografia, perché aveva dentro tutto. Ho affittato un capannone apposta per ospitare le tele e non dipendere dalle logistiche. Avevo bisogno di un rifugio mentale mio e infatti mi sono chiuso dentro mesi interi perché dovevo sognare ed elaborare il progetto perfetto: tutto in bianco e nero, con effetto metallico a sbalzo. Doveva sembrare fulgido, argenteo. Era scenografia composta da tutte sagome che parevano un rilievo tridimensionale, con quinte a destra e sinistra, spezzati e scalinate. Un lavoro modernissimo per certi aspetti, con aggiunta di pavimento in plexiglass illuminato a neon. Il trionfo della luce: Montresor chiese e volle che tutta la pittura captasse ed emanasse effetti luminescenti. E pure io, intimamente, ero acceso come una brace. Perché avevo capito come fare».

Quanti siete rimasti in Italia di scenografi professionisti?
«Con un proprio atelier privato, solo in tre: io, Rinaldo Rinaldi a Modena che assieme alla moglie porta avanti un laboratorio nello stesso stabile del teatro e la giapponese Keiko Shiraishi, che lavora ugualmente in Emilia, regione che, intorno a Giuseppe Verdi, ha sempre espresso grandi talenti scenografi. Rinaldi, a differenza mia, ha un profilo istituzionalizzato. Ci siamo conosciuti di persona solo qualche anno fa, a una conferenza alla Fondazione Cini nell’isola di San Giorgio,
eppure da sempre parliamo lo stesso linguaggio e ci accomuna l’identico afflato per il nostro mestiere. Sostanzialmente entrambi vogliamo far rivivere questa pittura, anche se poi viene buttata via. Poi ci sono altre realtà similari che però si sono specializzate in sculture, oltre a una miriade di scenografi che nascono e muoiono per gli allestimenti fieristici. Ma che eseguono la pittura con la tela inchiodata a terra e la pompa del colore in spalla, siamo rimasti in tre».

Quindi ci sono i liberi professionisti e gli istituzionalizzati?
«Sì. Il Teatro Massimo di Palermo, per esempio, ha un laboratorio di scenografia al proprio interno che funziona benissimo. Così come alle ex fabbriche Ansaldo di Porta Genova a Milano operano gli scenografi interni del Teatro La Scala con annesso laboratorio di scultura e falegnameria e due grandi saloni dove ci stanno anche quattro e più fondali alla volta. Un terzo polo importantissimo è il Teatro dell’Opera di Roma, in via dei Cerchi, sopra il Circo Massimo. La fiamma per quest’arte viene tenuta viva anche e soprattutto se c’è l’amore delle istituzioni, altrimenti si perde la conoscenza. Molti pensano che questi lavori siano pronti dalla sera alla mattina, invece vanno programmati per tempo. Il nostro mestiere comporta grandissimo sforzo organizzativo e fatica fisica. C’è pensiero e muscolo».

Forse anche per questo siete rimasti in pochi?
«Sì, ma non solo. La maggior parte dei lavori manuali stanno sparendo perché non sono considerati e vengono pagati poco, pur comportando tantissime ore di lavoro».

Quanto tempo impiega mediamente a dipingere una scenografia?
«Dipende dalle dimensioni e dal soggetto, dalla difficoltà dei particolari. Ma direi che mediamente, fra il disegno, i colori di base e l’andare nel dettaglio con perizia cromatica, un paio di mesi. Per una Bohéme di 1200 metri, anche tre mesi».

Qual è il valore commerciale del vostro lavoro?
«A volte costiamo meno di un imbianchino e di una stampa digitale».

Ultimamente, parentesi Covid a parte, le sono state commissionate scenografie?
«No, è tutto fermo purtroppo. Un paio di lavori, per i quali avevo vinto una gara d’appalto, si sono arenati. L’ultimissimo in ordine di tempo è un’Aida di ispirazione napoleonica, su bozzetti di Pierpaolo Bisleri, che dovrebbe andare in scena al Teatro Petruzzelli di Bari nel 2022. È un lavoro al quale ho dedicato 4 mesi, da agosto a novembre 2020. Sono sicuro che verrà scambiato per una proiezione, talmente è minuzioso. Perché è questo il grande dramma: la mancanza di informazioni,
la pigrizia di cultura che omologa tutto. Viviamo un grande paradosso oggigiorno: abbiamo tutti la biblioteca digitale in tasca a portata di telefono ma la maggior parte delle persone non sa cosa sia l’arte».

La sua è arte applicata?
«Assolutamente sì: è l’espressione dell’uomo mediante una tecnica. L’arte contemporanea ha sovvertito l’ordine delle regole e oramai siamo storditi dalla trielina e dalle forme senza significato. Non bisogna liberare il proprio ego, ma liberare la bellezza attraverso il talento. Oggi non c’è l’aggancio col passato, c’è lo sfratto del bello e del ben fatto, la perdita di quella che io chiamo “la palestra del fare”. Come si può diventare poeti se non si conosce l’alfabeto? Io mi sono ispirato ai grandi pittori e da loro continuo a imparare. Il mio desiderio è nobilitare la pittura di scena e farla assurgere a un posto di rilievo nelle arti applicate: vorrei che la pittura diventasse musica, ossia uno spettacolo per gli occhi. È esattamente questo che sto tentando di fare, durante questa mia ventennale collaborazione con la costumista e scenografa Luisa Spinatelli».

Lei, tra l’altro, è anche uno dei più importanti copisti di Canaletto…
«Sì, ho avuto la folgorazione per Giovanni Antonio Canal detto Canaletto fin da piccolo. Copio e riproduco fedelmente i sui quadri perché da essi traggo ispirazione e mi tengo vivo. Per me è l’unico grande pittore scenografo italiano: il giacimento da dove attingo suggestioni tutti i giorni e attraverso il quale riesco a interpretare ogni bozzetto che mi viene sottoposto».

Paolino, quanto ama il suo lavoro?
«Più della mia stessa vita, perché la mia vita l’ho usata per il lavoro. Non mi sono neanche sposato, non ho messo su famiglia, perché mia moglie avrebbe dovuto avere una comprensione estrema per questa mia immersione totalizzante nel lavoro. Che non svolgo per vanagloria. Io non sono un gallerista che espone quadri a una personale o a una collettiva: a volte non ho nemmeno il mio nome scritto in cartellone o sul libretto di sala. Però sono conosciuto ovunque».

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