Parlare di cultura dello stupro aiuta molte donne a recuperare l’aggressività necessaria per reagire

Parlare di cultura dello stupro aiuta molte donne a recuperare l’aggressività necessaria per reagire

Mary Gaitskill, scrittrice americana autrice di alcuni racconti e romanzi di culto, si occupa di genere, sesso e potere – e delle relazioni che interoccoro tra essi – da più di trent’anni, già a partire dalla sua prima, seminale raccolta di racconti del 1988, Bad Behavior. I suoi scritti esplorano i temi del masochismo, delle molestie sessuali, degli abusi, sempre sul confine ambiguo tra vittima e carnefice,  desiderio e sottomissione. In un saggio intitolato “The Trouble with the Following Rules”. On ‘Date Rape’, ‘Victim Culture’ and Personal Responsability”, ripubblicato nel volume Somebody with a Little Hammer, la scrittrice americana Mary Gaitskill racconta di due brutte esperienze sessuali che ha affrontato nella sua vita. Nel primo caso con un ragazzo conosciuto a casa di un’amica: i due si erano ritrovati da soli nell’appartamento, lui le aveva offerto un acido e lei lo aveva accettato; lui aveva insistito per avere un rapporto, lei non era riuscita a dire chiaramente di no e, nonostante la sua riluttanza, le cose erano andate avanti; tra i due c’era “scarsa familiarità culturale” e l’“estrema gentilezza” del ragazzo l’aveva ulteriormente confusa. Gaitskill definisce questo episodio come “date rape”, anche se con il ragazzo non si trattava di un vero e proprio appuntamento. Nel secondo caso, invece, la scrittrice racconta di quando ha subito uno stupro in piena regola, da parte di uno sconosciuto in un locale: tuttavia, di questa esperienza dà soltanto un resoconto di poche righe, a differenza dell’altra esperienza di violenza, per lei di gran lunga più dolorosa. “Mi rendo conto che può sembrare bizzarro, ma per me lo stupro è stato un atto chiaramente definito, perpetrato su di me da uno stronzo pazzo che non conoscevo o di cui non mi fidavo; non aveva nulla a che fare con me o chi ero, e così, quando è finito, è stato relativamente facile da respingere. La crudeltà emotiva è più complicata. Le sue motivazioni sono spesso impossibili da capire, e talvolta vengono da persone che a cui piaci o che addirittura ti amano”.

Mary Gaitskill

Alla luce di questo saggio uscito originariamente su Harper’s nel 1994 ma ancora molto attuale (benché sia un resoconto di un’esperienza filtrata dal particolare vissuto dell’autrice), è più facile capire come l’autrice sia riuscita a scrivere il suo ultimo libro, Questo è il piacere, un racconto a due voci della vicenda di Quin, un editor newyorkese accusato di molestie da una lunga lista di donne. Senza dubbio Gaitskill è riuscita a scrivere una delle riflessioni più interessanti sul dibattito post #Metoo: in nemmeno 90 pagine riesce a problematizzare la questione una volta per tutte. Si esce confusi dalla lettura di Questo è il piacere perché l’autrice si mette nei panni dell’accusato, prova a credergli e poi a non credergli, e si concentra più sulle conseguenze delle azioni che non sull’innocenza (presunta) delle vittime, riuscendo così in un’impresa apparentemente impossibile: fa dialogare due versioni a volte discordanti a volte convergenti e captando ogni minima sfumatura. 

Quasi trent’anni dopo, Valentina Mira racconta in un memoir intitolato X lo stupro subito da parte di un amico del fratello. Il racconto non è tanto diverso da quello della Detroit degli anni Settanta. Valentina ha diciannove anni, è ubriaca, lui la bacia un po’ a forza, a lei viene un conato di vomito. Lei si gira, lui fraintende. Lei prova a respingerlo debolmente, “come in quegli incubi in cui hai le gambe molli”. “Poi istintivamente mi arrendo. Mi paralizzo, letteralmente. Mi sento come quando ero piccola e il papà beveva […] sono di nuovo quella bambina lì. Immobile. Un piccolo animale che cerca di scampare l’emergenza sparendo, mimentizzandosi”. Il libro, che è una lunga lettera di Valentina al fratello, si addentra nei meandri del dolore e del senso di colpa, nelle reazioni del corpo che diventa a poco a poco estraneo e infine nelle difficoltà sia burocratiche che emotive in cui ricade la protagonista quando prova a denunciare. Valentina, come il 90% delle donne italiane, infatti, non denuncerà mai. Troppo difficile: i carabinieri le chiedono delle prove che non ha. Niente lividi, solo un po’ di sangue tra le lenzuola, che è stato pulito subito dopo per vergogna. “Perché non ti fai fare un finto certificato medico di stress post traumatico o trovi dei testimoni falsi?”, le suggerisce un carabiniere gentile, lo stesso che poi la sera stessa le manderà un messaggio chiedendole di uscire insieme a lui.

A volte ci ci si paralizza di fronte alla violenza – invece che aggredire a propria volta e a ribellarsi – perché a volte non siamo capaci di dire di no. Una risposta a questo comportamento provava a darla Mary Gaitskill nel suo vecchio saggio: a distanza di anni parlando con un’amica più grande di lei infatti raccontava di aver capito che, nonostante non fosse stata costretta con le forze e nonostante i sentimenti ambigui, anche empatici, verso il partner, quella volta a Detroit si era sentita profondamente violata. E aveva capito anche che se non era stata in grado di alzarsi la ragione era che nessuno le aveva “insegnato come si faceva”. “In un certo senso ho capito che mi ero fatta violenza da sola”, commentava.

Naturalmente la difficoltà a reagire dipende da tanti fattori, dalla forza fisica dell’aggressore, dalla paura di una violenza ancora più grave, e anche dal contesto e dall’età in cui si subiscono molestie o violenze. Secondo la psicoanalista Marina Valcarenghi non sappiamo esercitare quella che lei chiama “aggressività femminile”. L’“aggressività” è diversa dall’“aggressione”, è prima di tutto “quell’istinto che guida a riconoscere, ad affermare e a proteggere la propria identità”. Alla fine del suo memoir, Valentina Mira si augura che le donne imparino il diritto a difendersi: “La donna che colpisce l’uomo che sta per violentarla non è violenta ma resistente”. Il confine tra violenza e autodifesa è labile, certo, ma sembra che nei secoli si sia verificata una soppressione dell’istinto aggressivo in tutte le donne, azzarda Marina Valcarenghi nel suo libro L’aggressività femminile. Inoltre il deficit aggressivo, come lo chiama Valcarenghi, rende difficile riconoscere i propri desideri, perché facilmente le donne diventano insicure e si auto-colpevolizzano.

Se non ci hanno insegnato come si fa a reagire è perché diceva Laurie Penny, “Le ragazze sono allenate a immaginare il sesso come qualcosa che subiranno, piuttosto che qualcosa che potrebbe dargli piacere”. Le cause alla base di reazioni “paralizzate” o troppo “aggressive” di fronte a una violenza sono le stesse che spingono a dire sì, anche quando non vorremmo, che ci fanno balbettare davanti a un invito a cena del nostro capo o reagire con un sorriso ebete di fronte a un complimento che arriva in un contesto sbagliato. La paralisi che prende il corpo e la mente di fronte alla violenza non è diversa da quella che abbiamo davanti a un abuso di potere. Ogni testimonianza, ogni contributo, ogni confronto  lavora per smantellare pezzo per pezzo la cultura dello stupro, libera le donne dal senso di colpa e dall’incapacità di essere aggressive quando serve, senza paura di ritorsioni peggiori o di giudizi e non le fa sentire sole.

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