IL RAGAZZO PRODIGIO
Su una sola cosa tutte le testimonianze concordano perfettamente. Lucio era un fenomeno già da piccolo. A tre anni, si racconta, mamma e papà lo portano a passeggio e, passando davanti a un caffè concerto, per l’esattezza il Caffè Centrale in piazza Re Enzo, lui scappa e sale sul palco per cantare una filastrocca intitolata Op, Carolla, tra gli applausi del pubblico divertito da questo impudente bimbetto. A quattro anni era già un piccolo comico, faceva ridere perché strimpellava polche e mazurche con una fisarmonica più grande di lui, era un esibizionista nato e i genitori erano permissivi, non cercavano di scoraggiarlo, sapevano di avere un figlio che aveva poco in comune con gli altri bimbi della sua età. Era un ragazzo speciale, totalmente fuori dalla norma, e tanto valeva assecondarlo. Sta di fatto che gli consentirono qualcosa che per i bimbi suoi coetanei sarebbe stato impensabile: stare in una vera e propria compagnia di operette, la “Primavera d’arte” diretta da Bruno Dellos, un profugo istriano di Pola che era arrivato anni prima a Bologna e si era ambientato talmente bene da diventare uno dei maestri locali dell’avanspettacolo e del teatro dialettale. Al suo primo impegno ufficiale nel mondo dello spettacolo Lucio aveva solo sei anni, e non si può certo dire che fosse un figlio d’arte. La cosa più estrosa che lo circondava in casa erano i vestiti colorati cuciti dalla mamma, ma a dire il vero un parente nello spettacolo la famiglia Dalla ce l’aveva: lo zio Ariodante, un bravo cantante che incise la sua prima canzone, Argentinita, proprio nell’anno in cui nasceva Lucio, e diventò discretamente famoso grazie alla radio e alle orchestre che lo richiedevano, prima fra tutte quella del Maestro Pippo Barzizza.
Anche se questa definizione in seguito l’avrebbe trovata fastidiosa, Lucio era a tutti gli effetti un bambino prodigio. Recitava, cantava, ballava, tutti lo ricordano comunicativo e spiritoso, un piccolo istrione in grado di sorprendere i grandi. Le foto dell’epoca lo ritraggono in frac, oppure vestito da torero o con altri abiti di scena, negli spettacoli organizzati dalla compagnia in via D’Azeglio, vicino a casa, dove c’era un piccolo teatro chiamato “La Soffitta”. Il numero più atteso, ricorda Baldazzi, era quello in cui lui usciva a sorpresa da una valigia e gridava: «Dovrai passare sul mio cadavere!» al cattivo di turno. Irresistibile, a detta dei testimoni, da applauso a scena aperta, probabilmente il primo vero applauso ricevuto nella sua vita.
Nel suo piccolo mondo di provincia la “Primavera d’arte” aveva un discreto successo, era richiesta anche in altre città, e di nuovo la famiglia mostrò una larghezza di vedute non comune concedendo alla compagnia di portare qualche volta in trasferta anche il piccolo Lucio, ovviamente sotto la personale protezione del capocomico Dellos. Sta di fatto che nel suo girovagare la compagnia approdò anche a Roma, al prestigioso Teatro Valle, e lì ad accorgersi delle doti del bambino che usciva a sorpresa dalla valigia, dice la leggenda, sarebbe stato addirittura Vittorio De Sica. Ma erano pur sempre cose da bimbo, certo non ancora una scelta di vita. «Facevo questo senza rendermene conto» spiegò Dalla, «come tutti i bambini; non me ne fregava niente, anzi era un peso.»
C’è una foto del 1949 che lo fissa nel pieno di una recita scolastica. Ha sei anni ma è già lui, la faccia messa di sbieco, il sorriso ironico, il cilindro e un bastone. È scatenato, irrequieto, balla, recita e canta le canzoni che ha imparato a memoria mentre sta seduto ad ascoltare la radio accanto alla mamma che cuce. E ha anche un soprannome, “Briciola”, una sorta di alter ego più sfrontato, meno timido, un poco esagerato e spaccone, come fosse già una piccola star. I genitori guardavano, accettavano, aspettavano. Anni dopo Lucio raccontò:
Ho trascorso molto tempo da solo, mia madre sospettava che, al di là di alcune intuizioni che lei trovava geniali, io fossi un deficiente. Mi portò anche da uno psichiatra. C’era un istituto psicotecnico d’avanguardia a Bologna dove giudicavano l’attitudine dei bambini e mia madre, convinta di avere un genio in mano, mi portò lì. Mi fecero fare tutti i test e lei, che si aspettava che le dicessero «Suo figlio andrà sulla luna», si sentì rispondere: «Suo figlio sarà un bravo operaio». «Operaio sarà lei» replicò.
Grazie alla sua bizzarra personalità era diventato il “re degli amici” quando giocava con gli altri in piazza Cavour,quando sotto le finestre di casa inventava storie e favole tra la neve e le panchine gelate, tra le piante che si trasformavano in giungla e i sassolini che diventavano le rocce del Far West. Ma la spensieratezza durò poco: nel 1950 il padre Giuseppe morì per un tumore e la sua vita cambiò, inesorabilmente: «Avevo sette anni» raccontò a Baldazzi, «e provai la sensazione struggente di una perdita che mi consentiva di dire a me stesso con pietà e tristezza: “Da oggi sei solo come un cane”». Lucio ricordava bene anche il momento esatto in cui la mamma cercò di spiegargli cos’era successo: «“Si è spenta una luce”» mi disse. «Eravamo uno di fronte all’altra. Mia mamma mi annunciava così con pietà, dolcezza e, perché no, anche un poco di poesia quello che io intuivo come solo un bimbo di sette anni può fare.» E la reazione di Lucio fu del tutto inaspettata:
Avvertivo come già chiusa la ferita che aveva provocato alla mamma la morte del babbo e non so per quale misteriosa ragione non scattava il mio dolore di orfano, per cui mi sentii obbligato a dare una risposta che la tranquillizzasse, che testimoniasse nello stesso tempo e perentoriamente il mio essere diventato adulto, capo famiglia. Con la stessa pietà e con lo stesso amore le buttai le braccia al collo e le dissi: dove andiamo quest’estate al mare?
Era la fine di quell’infanzia eccentrica e vagamente spensierata vissuta fino a quel momento. Da quell’istante la figura del padre iniziò progressivamente a sbiadire, quella della madre a diventare centrale, enorme, ma allo stesso tempo, soprattutto nei primi anni, il rapporto tra i due venne messo a dura prova dalle avverse circostanze. Rimasta vedova, per far quadrare i conti Iole fu costretta a viaggiare per lavoro con maggior frequenza del solito e Lucio venne spedito a Treviso, nel Collegio Vescovile Pio X. Ci andò ogni inverno, da quando aveva otto anni fino a quando ne compì dodici. Di quegli inverni in collegio sappiamo poco o nulla. Lucio non ne parlava mai, e forse c’era davvero poco da dire, forse improvvisava recite per i suoi compagni di “reclusione”, forse rimuginava da solo sulla sorte ingrata e sull’attesa dell’estate come momento liberatorio, quando per incanto tutto tornava al suo posto, esattamente come doveva essere. Sarà un caso ma da quel momento il mare, l’estate, i luoghi azzurri e assolati diventarono la sua casa ideale.
Ogni anno a giugno da Treviso tornava a Bologna e da lì si ripartiva per le lunghe estati da passare a Manfredonia al seguito della mamma che armi e bagagli calava verso la Puglia, accompagnata da aiutanti e modelle, e dal suo simpatico figlio. Ma questa esuberanza esteriore mascherava una più introversa e complicata riservatezza. E soprattutto era strano, diverso. Non cresceva, gli altri ragazzi diventavano alti, allungavano le gambe, mentre lui restava basso e cicciottello. La madre era preoccupata, ma all’inizio pensava che fosse solo un ritardo nello sviluppo. Le cose però non cambiavano e Lucio restava piccolino. I compagni cominciavano a prenderlo in giro, il soprannome Briciola, che fino a qualche tempo prima gli piaceva, adesso lo infastidiva. Era arrabbiato, non voleva restare indietro, essere più piccolo degli altri. Alla fine Iole si decise a portarlo da uno studente di Medicina perché trovasse una soluzione, una cura possibile. La visita durò pochi minuti, poi lo stu- dente, dopo aver esaminato con attenzione le mani di Lucio, disse che c’era una tendenza al nanismo, ma che non si doveva preoccupare perché c’erano cure ormonali che potevano sbloccare la situazione. Lucio prese le medicine e il risultato non tardò a mostrarsi in tutta la sua vistosa maestosità: a quindici anni non era cresciuto, ma in compenso era peloso come un orango, con un clamoroso florilegio di peli sul petto, sulle gambe, sulla schiena. Col passare degli anni dentro di lui le cose erano cambiate, si sentiva impacciato, fuori posto. «La fine del teatro» disse una volta «coincise con la scoperta dell’erotismo. Ora sembra una cosa stupida, ma in realtà era così. Erano gli anni Cinquanta, quindi si viveva nelle strade, c’erano molte bambine, situazioni strane, smisi decisamente di essere il bambino prodigio quando cominciai ad avere i primi rapporti.» Anche Baldazzi ricorda che quando Lucio tornò da Treviso non era più quello di prima. L’esperienza del collegio lo aveva cambiato. Era partito bambino ed era tornato adolescente. Gli amici lo accoglievano con lo stesso affetto, ma Lucio era diventato un altro, non voleva più essere “la piccola star”, voleva quello che avevano tutti gli altri ragazzi alla sua età:
Di quegli anni mi ricordo la neve. Ne cadeva tantissima da ottobre ad aprile. Noi giocavamo per strada, con cappottoni e grosse berrette di lana in testa. Avevamo sempre mani e piedi gelati. Ricordo anche la mania delle moto, le marche entrate nel mito: Rumi, Guzzi, Gilera. I ragazzi grandi si sfidavano alle corse sotto le Due Torri, con le fidanzate sul sellino e i vecchi che gli urlavano dietro.
Ma a quel punto tutto cambiò, grazie anche a un oggetto dai poteri mirabolanti.
Il passaggio all’adolescenza di Lucio ha il suono limpido e guizzante del clarinetto. Di musica nella sua vita ce n’era già, ma la fisarmonica che aveva imparato a suonare era un accessorio teatrale, un effetto a sorpresa da bimbo prodigio. Le cose cambiarono quando incontrò lo strumento che lo avrebbe accompagnato come un amico fedele per tutta la vita. Ma quando e come esattamente questo sia avvenuto non lo sappiamo per certo. Anche qui le versioni differiscono di molto. Secondo alcuni il magico strumento arrivò da Manfredonia magari proprio dal “solito” Morcaldi, oppure ancora, come sostiene vigorosamente la figlia di Lina Fantuzzi, la socia di mamma Iole, a regalarglielo sarebbe stato suo padre, per un semplice motivo. Walter Fantuzzi, come molti uomini della sua generazione, avrebbe tanto desiderato anche un maschio, quindi si era affezionato al piccolo senza padre riempiendolo di regali: soldatini di piombo, trenini e alla fine, secondo questa versione, un vero clarinetto. Ma di una cosa possiamo essere certi: chiunque gliel’abbia regalato, fu amore a prima vista, Lucio si appassionò, adorava l’oggetto, lo smontava, lo annusava, imparò a suonarlo in poco tempo e senza maestri, stabilendo con lo strumento, diceva, «una sorta di rapporto medianico», era una fantastica estensione di sé, un rito di passaggio, una chiave per aprire nuovi mondi.
In casa mamma Iole tollerava, e le toccava rabbonire i vicini che non gradivano quelle prove tecniche a qualsiasi ora del giorno e della notte, non poteva e non voleva opporsi al suo figliolo così originale e creativo. Fu grazie al clarinetto che la musica entrò sul serio nella vita di Lucio, per non andarsene mai più. Nel giro di un anno o due diventò un abile strumentista. Un momento straordinario che evocò molti anni dopo, in una canzone del 2007 intitolata Due dita sotto il cielo:
… A 15 anni mi sembrava di volare
E che potevo scegliere se vivere o morire
Ché tanto era uguale
L’importante era capire
Dove io e la mia testa col mio corpo potevamo andare
Dicevo a tutti «io vivrò
Due dita sotto il cielo»
A 15 anni questo era il mio pensiero.