Questo articolo è pubblicato sul numero 4 di Vanity Fair in edicola fino al 26 gennaio 2021
«Non butta’ via ’a ciccia!», diceva nonna Lella, alla fine del pranzo di famiglia. Sparecchiare, di domenica, a casa di nonna, poteva trasformarsi nell’arte di recupero più avanzata che i miei giovani occhi potessero memorizzare. Quella era la «spesa» che lasciava presagire quale sarebbe stato il menù per tutta la settimana.
Ogni piccolo avanzo, lasciato nei piatti o nelle pentole, veniva conservato in contenitori di varia grandezza ed etichettato alla buona con titoli rigorosamente in romanesco che mia nonna mi dettava, tipo: pommidori in frescura, spaghi da ripassà lindomani, cazzimperio da coce, brodo grasso de’ ciccia, persiche mosce, rigaje der pollo de’ Guerino. Guerino… il mio meraviglioso nonno, costruito con materiale rigorosamente bio, «metà ciccia e metà legno» perché invalido «de’ guera» dal ginocchio in giù.
Nonna Lella e nonno Guerino la sapevano davvero lunga, l’arte del recupero era qualcosa che veniva dalla speranza di poter vivere per sempre felici e contenti. Quindi…
Lunedì: rigaje der pollo + pommidori in frescura + riso e mozzarella = supplì.
Martedì: cazzimperio con qualche aggiunta = vignarola.
Mercoledì: spaghi da ripassà = pasta alla zozzona.
Giovedì: brodo grasso de’ ciccia + ova e formaggio = stracciatella.
Venerdì: persiche mosce = persiche ar vino magnaebevi.
Sabato: lavanda gastrica… che domani «Se rincomincia!», diceva ridendo bio-nonna Lella.
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