Eccone un altro, di quelli che tutti hanno sulla punta della lingua, che vengono nominati senza che si sia letto niente più che una quarta di copertina dei loro lavori, se non addirittura un titolo e basta: come nel caso di Samuel Beckett, del quale si conosce nulla più che Aspettando Godot, che è diventata una locuzione paradigmatica, proverbiale, un vero e proprio modo di dire, svuotato pressoché di contenuto e anche frainteso e storpiato (Aspettando, Godo è uno dei modi più comuni e triviali).
Ma quale sarebbe, in definitiva, il contenuto di Aspettando Godot, che è di gran lunga il lavoro più conosciuto di questo Samuel Barclay Beckett (Dublino, 13 aprile 1906 – Parigi, 22 dicembre 1989), dublinese quindi, ed amico di James Joyce, che fu poeta, sceneggiatore, romanziere, autore teatrale, il tutto sia in inglese che in francese, che nel 1969 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura in quanto «per la sua scrittura, che – nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma – nell’abbandono dell’uomo moderno acquista la sua altezza».
La motivazione vi sembra poco chiara? Non abbiamo sufficiente stima per l’Accademia di Svezia da credere che questa cripticità sia stata voluta: pensiamo piuttosto che si tratti di una benedetta forma di casuale intelligenza, che ha portato per così dire ad adattare lo stile alla materia. Beckett infatti fu degno amico di Joyce, che col suo flusso di coscienza desiderava certamente comunicare molte cose, ma certamente non essere chiaro, univoco e didascalico. Ma mentre J.J. costruì nei suoi romanzi una difficoltà interpretativa corposa, sommersa di cultura e citazioni, rimandi ed elaborate espressioni sintattiche, Beckett contrappone il pieno al vuoto e porta sulla scena – ci riferiamo ovviamente sempre a Godot – un nulla pneumatico, ma affascinante.
Due uomini su una scena desolata, vestiti come barboni; un albero che con la caduta delle foglie costituisce il segno del passaggio del tempo; una serie infinita di discorsi sulla fame, sul freddo e sul disagio che provano, con un linguaggio basso, infarcito di luoghi comuni, detti popolari e passaggi privi di senso. Su tutto, l’attesa infinita di un tale Signor Godot che manda sempre a dire che oggi non verrà, ma domani sì, un domani rimandato in eterno, mentre i due si dicono «E ora? possiamo andare?» – «Sì, andiamo» ma, in ossequio alle indicazioni sceniche, «They do not move», non si muovono, in eterno.
Aspettando Godot è tutto qui. Si fa per dire, ché solo a libere associazioni estemporanee viene in mente Kafka e il suo immobilismo eterno Davanti alla legge, e Jack Kerouac con il suo incessante movimento verso non si sa dove, «Non so, ma dobbiamo andare». E ovviamente c’è il gioco lessicale insito in Godot, sorta di crasi tra God e dot, Dio e punto. Poi abbiamo l’assenza della struttura tradizionale, una divisione in due atti pressoché identici, tanto che si suol dire che Beckett non ha costruito un lavoro teatrale in cui non succede nulla, bensì due: concetto, questo, che fa il paio col fatto che la poetica beckettiana si fa appartenere al cosiddetto Teatro dell’Assurdo, come i lavori di Ionesco, Genet e Pinter: per assurdo, però, il Teatro dell’Assurdo non esiste, nel senso che non è mai stato codificato alcunché di programmatico, secondo una corrente o un Manifesto. Cosicché, in definitiva, Beckett ha costruito un lavoro teatrale duplice e singolo, in cui non accade nulla, secondo dei canoni stilistici mai codificati.
Si diceva, Aspettando Godot è entrato nel linguaggio popolare per indicare un avvenimento che si crede imminente ma che in realtà non accade mai (come il raggiungimento della pensione per la generazione che si affaccia oggi al mondo del lavoro, per dire), né si fa nulla per far sì che si verifichi effettivamente: una delle rare occasioni in cui l’interpretazione popolare si sovrappone perfettamente al senso-nonsenso dell’opera, il cui significato profondo sta proprio del attestare l’insensatezza dell’esistenza umana.
Dopodiché, ci sarebbe da espandere il discorso sul resto della produzione beckettiana, che comprende otto romanzi (anch’essi nel solco di Joyce, seguendo una riconfigurazione del romanzo), una quantità di novelle e racconti, decine di poesie, lettere e traduzioni, una messe di testi non riconducibili ad un genere specifico, lavori per la radio e la televisione ed una ventina di lavori teatrali. E dovremmo anche spendere qualche parola sulla biografia di Samuel Beckett, che muore il 22 dicembre del 1989 a pochi mesi di distanza dall’amata moglie Suzanne: la quale, ben conoscendo il carattere schivo del geniale marito, si era riferita al conseguimento del Premio Nobel come “un’immane catastrofe”. Una catastrofe meritatissima vista la capacità di Beckett di dipingere l’insensatezza della vita e del nostro animo, di tutti noi che trascorriamo l’eternità terrena aspettando qualche Godot.
Nicolò Peroncini per MIfacciodiCultura
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