Secondo il modello psicoanalitico di Elizabeth Kubler Ross, esistono cinque fasi che permettono l’elaborazione del lutto: negazione, rabbia, contrattazione, depressione e, infine, accettazione. L’ultima fase, l’unica che consente di superare realmente il trauma, coincide con il distacco definitivo e consapevole dall’oggetto del lutto. Ma come si può accettare la perdita se si sta parlando del nostro futuro? Questa sembra essere la più grande impasse postmoderna da cui non sappiamo più come uscire. Accettare di aver smarrito il domani è ontologicamente impossibile, a meno che il tempo stesso non si trasformi in un fantasma capace di infestare la nostra contemporaneità.
Mark Fisher nel 2014 in Spettri della mia vita riprende il concetto di “hauntology” formulato da Jacques Derrida per descrivere quella melanconia strutturale – la quale sembrerebbe coincidere con la fase depressiva dell’elaborazione del lutto – che affligge il Ventunesimo secolo. Secondo Fisher oggi non stiamo rimpiangendo la scomparsa di un oggetto specifico, quanto il venir meno di una propensione, di una traiettoria virtuale. Risulta difficile immaginare un domani privo degli spettri del cambiamento climatico, del debito pubblico, dell’emergenza sanitaria. Il futuro è oggi talmente “infestato” da diventare esso stesso uno fantasma. E questa appare come la diretta conseguenza di un millennio che si è aperto con la paura di una catastrofe informatica annunciata (eppure mai avvenuta).
Il “Millennium bug”, lungi dal decretare la fine del mondo, ha semmai rappresentato il passaggio simbolico ma non per questo meno traumatico nell’era della crisi permanente. Dal terrorismo alla finanza, dal clima all’industria, dalle migrazioni alla sovrappopolazione, la storia di questi primi vent’anni del nuovo millennio si sviluppa intorno al concetto di crisi. Uno dei saggi più rilevanti del Duemila, Modernità liquida di Zygmunt Bauman, analizza – non a caso – una società globale in preda a una crisi valoriale senza precedenti. “L’unica sua costante è il cambiamento e l’unica sua certezza è l’incertezza”, scrive, chiarendo che la nuovissima modernità vive necessariamente uno stato in divenire che reca in sé un’intrinseca vulnerabilità e incompiutezza.
L’inesorabilità del futuro coincide, per il sociologo polacco, con l’impossibilità di immaginarlo: è l’ennesima crisi, dunque – forse quella definitiva, dal momento che rimette in discussione il concetto stesso di tempo. Tuttavia è proprio nell’etimologia della parola “crisi” che si nasconde quel concetto che ci permette di superarla. Crisi deriva dal greco krisis, che significa letteralmente scelta. Il verbo krino racconta l’esigenza di riflettere e infine discernere. La normalizzazione della “crisi” come condizione d’esistenza contemporanea è tale perché dissolve temporalmente il concetto di scelta: in altre parole, la crisi finisce per essere è la nostra condizione naturale anche perché siamo incapaci di prendere decisioni.
Il think tank britannico Resolution Foundation ha pubblicato uno studio in cui si afferma che i millennial saranno la prima generazione dell’epoca moderna a essere statisticamente più povera rispetto a quella dei propri genitori, con un calo della ricchezza media del 17%. Nel biennio 2008-2010, mentre si stavano laureando o diplomando alle superiori (dunque proprio quando stavano per fare il loro ingresso nel mondo del lavoro), l’economia globale crollava sotto il peso delle speculazioni finanziarie e loro si ritrovavano senza la possibilità di riuscire a mettere da parte risparmi, smarriti nel vortice di lavori precari e sottopagati, quando riuscivano a trovarne uno che corrispondesse a quanto avevano studiato. Poi, proprio quando gli stipendi stavano leggermente aumentando e i millennial si avvicinavano (o superavano) i trent’anni, è arrivata la crisi scatenata dalla pandemia di Covid.
Una generazione già vulnerabile e con presupposti finanziari estremamente fragili è stata colpita per due volte in meno di quindici anni da due profonde crisi economiche. Eppure i millennial sarebbero dovuti essere i naturali protagonisti delle “scelte” necessarie al superamento di quest’ultima. Dovrebbe infatti spettare a loro riflettere e discernere, e soprattutto decidere, in che modo investire le risorse stanziate per ricostruire il loro domani. E invece, ancora una volta, non gli viene fatto spazio. La sostanziale irrilevanza politica delle persone nate fra il 1980 e il 1995 racconta una specie di generazione invisibile, costretta a fare i conti con i problemi generati dai loro padri e a fronteggiare un’emergenza climatica e finanziaria così devastante da far apparire anche la pandemia come un problema relativo.
Malinconici, cinici, quando non ansiosi e depressi, i trentenni di oggi sembrano ormai rassegnati all’idea di vivere con il rimpianto di aver smarrito il proprio futuro. Il dramma dei millennial sembra riassumersi nella dicotomia tra lo stile di vita a cui la generazione precedente li ha abituati e la prospettiva di non riuscire a mantenerlo (né tantomeno migliorarlo), tra l’alto grado di formazione raggiunto e l’inesistenza di offerte nel mercato del lavoro, tra l’esigenza di essere ascoltati e la sfiducia nelle istituzioni. Anche le loro scelte in tema di sostenibilità ambientale sembrano raccontare un’inerzia lontanissima dalla “militanza” della gen Z, la quale si è spontaneamente raccolta attorno al fenomeno Thunberg. I millennial sembrano invece annientati, sfiniti dalla totale mancanza di fiducia che li accompagna da oltre un decennio.
Il problema è che questa disposizione esistenziale si traduce quasi ovunque in un disinteresse generalizzato nei confronti della politica (l’istituto SWG rivela che nelle regionali 2020 il tasso di astensione fra gli under 35 in Emilia Romagna è stato del 41%; e in Calabria addirittura del 60,8%). L’astensionismo e il non-voto di protesta (e rassegnazione) hanno permesso alle generazioni precedenti di avere ancor più peso all’interno del dibattito contemporaneo. Il consenso costruito sulla reiterazione di modelli storicamente consolidati – o peggio, attraverso la nostalgia con cui alcuni guardano ai sistemi iper-conservatori – nascono in parte da quella stessa cessione di potere. La crisi dei partiti politici progressisti di mezzo mondo ci racconta in modo inequivocabile quanto sia difficile immaginarsi un domani migliore dell’oggi, ma è necessario farlo, sforzarsi, altrimenti diventeremo complici di chi ha spinto il mondo nella discesa di questa china.
Già Baumann, nel 2000, evidenziava il rischio di un’imminente ascesa dei nazionalismi e delle destre più estreme: nella modernità liquida ritrova infatti spazio chi promette certezze, per quanto basate su contesti storici di cui non resta più alcuna traccia. Il revival di idee reazionarie e proibizioniste si costruisce intorno ai valori della famiglia tradizionale e al concetto di autorità, uniti a un modello industriale che non esiste più e che in ogni caso non può continuare, pena la distruzione del nostro stesso habitat. Il ritorno all’ordine diventa un antidoto all’incertezza e il passato diventa l’unico futuro immaginabile. Se il sovranismo oggi resiste, e talvolta dilaga, anche perché molti giovani si sono chiamati fuori dal processo democratico. È scontato che una ricetta politica imbevuta di paternalismo non possa trovare terreno fertile fra i millennial, i quali risultano essere i più giovani più istruiti della storia, come recentemente confermato da uno studio Ipsos: il tasso di laureati tra i millennial raggiungerà entro pochi anni un picco del 40% nel Regno Unito, contro il 32% della gen X. Eppure è proprio il loro grande patrimonio culturale a essere inesorabilmente sprecato.
Il problema dei millennial affonda le radici anche nel loro essere nativi digitali a metà. I millennial, infatti, sono cresciuti con internet, mentre la gen Z (composta dai nati fra il 1996 e il 2010) è cresciuta su internet. E se per gli appartenenti a questa generazione il web è sempre stato uno spazio estensivo del mondo, i millennial hanno imparato a conoscere internet prima come alternativa virtuale e solo dopo come realtà aumentata, vivendo questa trasformazione come il trionfo postmoderno definitivo e non come una rivoluzione autentica – basti pensare che i social vengono utilizzati dai trentenni soprattutto per commentare, o memare, con cinismo l’attualità. Il web, assorbendo le logiche finanziarie delle aziende che possiedono le piattaforme social, da possibile rivoluzione si è trasformato nell’ennesimo spazio tardocapitalistico dove consumare contenuti sterili e superficiali, segnando una profonda delusione per chi ci aveva creduto.
I millennial restano a metà tra queste due dimensioni, e la sensazione è che non siano in grado di incidere concretamente su nessuna di esse: da un lato la politica ignora le loro necessità, li esclude da quelle scelte imprescindibili per superare la crisi contemporanea; dall’altro sono proprio loro a confinarsi su internet, vittime di un post-postmodernismo che ha impedito loro di prendere sul serio il web quando avrebbero potuto farlo, magari contribuendo a dargli una forma diversa, andando oltre i meme e le shitstorm (anche perché, a essere onesti, abbiamo scoperto quanto sia comodo non assumersi alcuna responsabilità oltre la dimensione individuale). Il problema è che il domani arriverà lo stesso, anche se non riusciamo a prevederlo. Sta a noi scegliere come sarà il nostro futuro.
L’articolo Siamo la generazione della nostalgia del futuro perduto proviene da The Vision.