Super (market) Mario

Super (market) Mario

Questo articolo è pubblicato sul numero 7 di Vanity Fair in edicola fino al 16 febbraio 2021

Quello del supermercato è un rito di passaggio da sempre fondamentale e scivoloso per politici d’ogni latitudine. Il punto più basso del Conte-bis non è stato infatti sui problemi coi vaccini, ma quando la sua fidanzata si è rifugiata in un supermarket del centro di Roma, forse con la scorta, forse per paura delle Iene. Ma già Anna Finocchiaro, pezzo pregiatissimo del Pd, e destinata al Quirinale, fu braccata prima all’Ikea poi alla Sma mentre si faceva spingere il carrello dalla scorta (poi si scoprì che magari non era così, ma la sua corsa finì lì). Anche George Bush padre, nel 1992, per sgombrare il campo dall’immagine di politico di lungo corso (dunque kasta!) fece un giro in un super a Washington, prese una confezione di latte e una lampadina, e fin lì tutto bene, ma poi crollò sullo scanner delle casse: «Ma quello serve per pagare?», balbettò stupefatto. Fine della carriera. E Margaret Thatcher, nel 1997, già in pensione, pensò di appoggiare i suoi Conservatori con un salto al supermarket Tesco, per vedersi rifiutare un assegno da una solerte cassiera (pessimo auspicio, colossale batosta del suo partito, e inizio dell’era Blair). Invece Mario Draghi, il nuovo premier, al supermercato dà il meglio di sé: sta ordinatamente in fila per prendere un succo, o trasporta colossali sacchi di croccantini per il suo cane senza lo straccio di un bodyguard. E in contemporanea dà pure un bacetto alla sua signora. È sobrio, è elegante, è rimasto umile. È il re degli scaffali. È il premier da punti-fragola.

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