Triennale Milano ospita il ciclo fotografico The Fall di Giulia Mangione, vincitrice del premio Luigi Ghirri 2023. File rouge della mostra è il tema dell’Apocalisse e il suo declinarsi in umane paure.
La mostra, curata da Ilaria Campioli e Daniele De Luigi e visitabile fino al 18 febbraio 2024 negli spazi della Triennale di Milano, propone il lavoro con cui Giulia Mangione ha vinto il Premio Luigi Ghirri 2023 della scorsa edizione Giovane Fotografia Italiana all’interno del festival Fotografia Europea di Reggio Emilia. La mostra è promossa dal comune di Reggio Emilia al fine di scoprire e valorizzare i nuovi talenti under 35 del panorama fotografico italiano.
Il percorso che ha portato a The Fall comincia con tre anni di ricerca da parte della fotografa sul tema della felicità e sullo studio del mercato dei bunker in crescita a livello internazionale. Giulia Mangione si concentra dunque su storie collegate a queste forme architettoniche e al tema dell’apocalittico, raccogliendo un racconto fotografico che geograficamente spazia dalle Canarie agli Stati Uniti, attraversando Patmos, isola greca dell’Apocalisse. L’intento non è quello di apporre etichette o giudizi sulle scelte che hanno portato gli individui ritratti a condurre un certo tipo di vita, ma quello di dar voce attraverso l’immagine e non solo, ai timori generati da un’ipotetica fine del mondo.
Quello che Giulia Mangione indaga attraverso la sua ricerca fotografia, accompagnata da registrazioni e appunti di viaggio, sono alcune delle modalità attraverso cui diversi gruppi di persone scelgono di prepararsi in vista di avvenimenti catastrofici qualora dovessero verificarsi. I soggetti ritratti sono quindi survivalisti, preppers, membri di culti religiosi e persone che abitano nei bunker. Si tratta di contesti sociali che, in quanto sociali, rimandano anche al senso di appartenenza che in queste circostanze si genera. È proprio questa riflessione sul «tema dell’appartenenza in relazione al sentimento della fine» insieme alla «solidità della ricerca» e alla «qualità fotografica», come evidenziato dalla giuria della scorsa edizione di Giovane Fotografia Italiana, che ha portato Giulia Mangione a qualificarsi come vincitrice.
Protezione e appartenenza emergono anche dalle registrazioni che accompagnano la mostra, quasi indispensabili per contestualizzare queste storie che acquistano con la voce di chi le racconta una potenza ancor più vibrante. Giulia Mangione sceglie inoltre tioli parlanti per le proprie immagini, fortemente evocativi e che aiutano nella lettura di quanto il visitatore si approccia ad osservare.
Un esempio emblematico del connubio tra titolo evocativo e storia narrata è quello di When We Run Out of Chocolate Chips, the World Will End, che ritrae con tocco minimale delle gocce di cioccolato su un piano d’appoggio bianco. La voce di una donna, che in sottofondo si racconta, permette di entrare e navigare quella fotografia apparentemente così limpida. Le pepite non sono più un comune ingrediente, ma si fanno tentazione punizione. Il retroscena racconta infatti di una madre che periodicamente privava i figli di un qualche bene per un mese come prova di sopravvivenza. Lo spunto arriva da un romanzo sull’apocalisse in cui la protagonista, durante un periodo di carestia, scova e assaggia alcune scaglie di cioccolato. Ne consegue la costrizione a finire completamente la busta, che avrebbe costituito l’apporto calorico dell’intera settimana. La donna prosegue poi affermando che il ricordo di quei mesi e di questo particolare capitolo del romanzo ha portato i figli ad associare la fine del mondo con delle gocce di cioccolato. Dalla registrazione si percepisce inoltre che la donna al momento dell’intervista stesse proprio mangiando, elemento che colpisce e si pone in contrasto con il racconto della sua esperienza.
Ogni fotografia in mostra ha una sua storia alle spalle che spesso fa sorgere punti interrogativi in chi la guarda, creando un paradosso tra le mura stabili della sala espositiva e quello che invece pare essere un mondo sull’orlo della fine. Sono credenze e magari falsi miti che si annidano dietro i paesaggi e i volti dei soggetti ritratti, ma in anni in cui ad esempio ancora rimbomba un’eco pandemica, in mostra non può allora che risuonare forte la scritta dell’omonima fotografia How Do You Know What to Believe.
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