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Paolo Milone e l’arte di raccontare la malattia mentale con sensibilità e ironia

«Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura, mi ritrovo a fare il lavoro che fa più paura a tutti» ad affermarlo è Paolo Milone, psichiatra genovese nonché autore del libro “L’arte di legare le persone” edita da Einaudi. «A 14 anni ebbi una crisi depressiva, fu un’esperienza breve ma dolorosa che mi avvicinò al mondo della psicologia a tal punto che, a ridosso della scuola di specializzazione medica, un seminario di psichiatria psicodinamica fu galeotto: non ebbi il coraggio di fare una scelta diversa, quale poteva essere la medicina interna, e decisi di tornare su un terreno su cui mi sentivo sicuro» racconta Milone che, sospinto anche dal desiderio di entrare in connessione con l’intimità degli altri, ha lavorato, per quarant’anni, prima in un centro di salute mentale e successivamente nel reparto di psichiatria d’urgenza a Genova.

Anni vissuti quotidianamente a distanza ravvicinata dalla “Bestia”, tra urla e pianti muti di vite sfaldate che appiccicano addosso una mistura di violenza e follia. Storie umane di pazienti, di cui Milone sentiva la necessità di liberarsi, tanto che nel 2000 iniziò ad appuntarle cercando un modo per raccontarle senza incupire la gente.

«Rileggendo gli epigrammi di Marziale, ho scoperto il modo giusto per raccontare il male con sensibilità e ironia, lasciando una sensazione di pace nel lettore» afferma soffermandosi sulla contraddizione tra la necessità della parola soprattutto in situazioni complesse e l’incomunicabilità coi pazienti psichiatrici che si esprimono con il corpo. «La parola è paglia, è impotente in psichiatria: per i dementi è solo un’eco, per gli schizofrenici è tutto e niente, per i depressi è condanna, per gli euforici gioco, per i nevrotici una lama tagliente», scrive nel libro «ma noi psichiatri abbiamo il compito di resistere di fronte a questa difficoltà di comunicazione». E, indossando il camice dello psichiatra del Reparto 77, ha deciso di raccogliere le sue schegge letterarie, ognuna con un aspetto narrativo ma un unico centro emotivo, per bonificare il malessere congiungendolo con la bellezza della prosa lirica, nata spontaneamente.

Proprio attraverso la poesia conduce sull’orlo dell’abisso da cui scruta il dolore con gli occhi dei suoi pazienti, estirpa le radici della sofferenza e dimostra che la differenza tra sani e malati è una linea sottile, “un colpo di fortuna genetico, un tiro di dadi riuscito bene”.

Correndo tra i corridoi del reparto e dentro case fatiscenti, spesso come se affrontasse un’operazione militare, sopraggiunge nelle vite vaporizzate di paranoici, schizofrenici, depressi, tossicomani, euforici, ognuno con modi di fare, parlare e vestire differenti in base alla propria patologia; tratteggia la furia dei colleghi e dei malati, da cui solo col tempo ha imparato a non farsi invadere.

«In psichiatria va accettata completamente la persona, non la malattia. Il medico non deve mai fermarsi alla persona imprigionata nella patologia ma deve scandagliare l’identità cercando di entrare in contatto con le parti sane sino a recuperarle» aggiunge senza mai utilizzare termini troppo scientifici o riferimenti scontati ai manicomi, ma tratteggiando con metafore esistenziali le emozioni ambivalenti della sua professione, persino dell’arte del legare.

«I pazienti si legano solo in casi estremi, se non ci sono alternative. Non è cattivo chi lega ma chi abbandona il paziente, si tratta di etica. A mio parere, esiste una poetica del legare e dello slegare, nella contenzione si riverbera la sacralità dell’abbraccio primigenio: in qualsiasi relazione umana c’è un momento in cui ci si lega e uno successivo in cui ci si slega, sono fasi complementari come in un respiro» prosegue lo psichiatra che si aggira tra i vicoli di Genova, stretti quanto gonfi di disagio, abitati da persone che non esistono, invisibili che parlano da soli ai crocicchi, studiano i semafori, chiamano i gatti, anime salve deandreiane che spalancano una finestra sul dolore della vita.

Quel dolore che Milone ha incontrato ogni giorno della sua carriera affrontandolo come Sherlock Holmes: «trovandomi davanti a pazienti incapaci di spiegarsi, ho sempre trasformato le visite in avventure, vere e proprie indagini. Credo che quest’approccio serva a rendere la psichiatria più accessibile: c’è bisogno di storie realistiche che gettino luce affinché la malattia mentale non sia più un pozzo buio che incute terrore», conclude affermando che negare l’esistenza della follia definendo tutti uguali equivale ad annullare la diversità dell’altro. E non nasconde la preoccupazione per gli effetti causati dalle restrizioni sociali dettate dalla pandemia, che rischiano di generare diversità nei bambini, privati di fasi fondamentali per la crescita, e una sensazione conturbante di spaesamento nell’uomo, animale sociale costretto a vivere una “vita cristallizzata nell’armadio”, proprio come spesso accade in alcune malattie psichiatriche.

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