Questo articolo è pubblicato sul numero 8 di Vanity Fair in edicola fino al 23 febbraio 2021
Alle otto del mattino, seduto su una panca per gli addominali, Luca Josi è impegnato nello sport estremo di non rispondere alle cento chiamate che imperversano sul cellulare. Arrivano tutte dai collaboratori al lavoro sulla sua ultima idea per Sanremo, uno spot-quiz a cui verrà abbinato un concorso, con in premio la libertà: «È legato alle opportunità della tecnologia 5G e vuole essere la nemesi di quanto abbiamo vissuto nell’ultimo anno: chi coglierà più indizi legati al futuro vincerà un giro del mondo lungo 365 giorni. In suite, per quattro persone, in crociera». Un gioco per ribaltare lo schema classico della pubblicità. Che per la prima volta, da persuasione passiva, diventa processo di engagement con l’obiettivo di tenere tutti incollati alla tivù. Nei suoi cinque anni da direttore Brand Strategy, Media & Multimedia Entertainment di Tim, il cinquantaquattrenne Luca Josi del resto non ha fatto altro: massaggiare il cuoricione degli italiani con arguzie sentimentali e sapidamente pop, convincendo Mina a cantare i suoi jingle e il cardiochirurgo Francesco Musumeci a recitare (gratis) come un attore consumato, facendo ondeggiare l’Uomo ragno sul Bosco Verticale di Milano e chiamando a danzare il fenomeno autodidatta Sven Otten, trasformato in icona virale su sfondo rosso e blu: «Ce l’hanno chiesto anche in Brasile, la patria del ballo. Un po’ come se i napoletani chiamassero un pizzaiolo della Valtellina per far l’impasto della margherita», dice, con prontezza battutistica da rapper. Un passato da dirigente giovanile del partito Socialista, poi produttore tv con cinque Telegatti in bacheca, Luca Josi è un uomo di successo: «Ma chi? Io? Sono un beneamato nulla, mi creda. Se lo dice ancora una volta, giuro che le metto giù il telefono».
È sempre operativo così di buon’ora?
«Ormai sono un addicted disperato: quando si poteva mi svegliavo alle sei meno un quarto e alle sette ero in piscina, a fare un’ora e mezzo di vasche. Alle nove andavo in ufficio con la mente ripulita, e senza neppure la forza per arrabbiarmi davanti alle stupidate».
Eppure dicono che le energie per incavolarsi non le mancano.
«Perché sono un passionale, persino inutilmente emotivo certe volte. E ho un carattere, mettiamola così, articolato. Inoltre da ligure odio tutti gli sprechi, soprattutto di opportunità: i rimpianti, l’idea di aver fatto qualcosa non al meglio, sono il vero dramma della vita».
Non si capisce bene se lei sia un inguaribile utopista o un disincantato relativista.
«Vivo come un solido aspirante cristiano ma nell’anima resto un ateo desolato, convinto che la vita sia una favola vuota narrata da un idiota. Allo stesso tempo però sono continuamente innamorato, della mia signora come delle mie figlie e delle mie passioni. Non riuscirei a vivere in altro modo. Nella certezza tuttavia di quanto tutto questo sia buffamente vano».
E perché allora lavora sempre?
«Il mio amico Roberto D’Agostino dice che sono una creatura mitologica metà uomo e metà telefonino. Professionalmente sono un protestante tendente alla totalizzazione, senza sabati né domeniche. Credo nel metodo e ho un modo di organizzarmi cartesiano. Sarà che da bambino ero mezzo dislessico e fino ai quattro anni non ho spiccicato parola. Oppure il fatto di non essermi laureato, in una famiglia dove sono tutti professori universitari oppure eroi. Vivo con un senso di colpa che ho trasformato in una lepre: lei mi corre davanti e io sono il cane che la insegue. Continuamente».
La sua scrivania è piena di pupazzi della Walt Disney, oggetti, statue di supereroi. Lo fa per paura di perdere l’incanto?
«Per non farmi rompere le scatole su questa faccenda, dietro alla mia postazione, ho appeso una massima di Albert Einstein che dice più o meno così: se una scrivania in disordine è segno di una mente disordinata, una scrivania vuota cosa indicherà mai? Grazie al mio amministratore delegato ho anche rivoluzionato il reparto comunicazione dell’azienda, che ora è pieno dei colori e dei personaggi che abbiamo creato. Ribaltando il filosofo Feuerbach, se l’uomo è ciò che mangia, a maggior ragione è il luogo in cui lavora. E gli uffici, in questo senso, sono spesso disumani».
Ma è vero che il ballerino Sven Otten, da cui tutto è iniziato, l’ha scovato sua moglie Allegra?
Come due Sandra e Raimondo cibernetici eravamo seduti sul divano a smanettare su nostri iPad. Lei, a un centimetro da me, mi ha mandato una mail con un video di Otten e il brano All Night di Parov Stelar. Quella corrispondenza l’ho stampata e appesa in ufficio, col nome “Mail zero”. Per ricordare a me stesso che bisogna saper prendere il meglio di ciò che ti gira intorno, e che in pubblicità non va bene prendersi troppo sul serio, che mica si sta inventando la penicillina. La storia di Sven Otten, un ragazzo berlinese che fondamentalmente danzava per non farsi venire la panza, in questo senso è emblematica».
Colpisce il suo modo lento e pastoso di esprimersi, che sembra un’immagine plastica del funzionamento del suo cervello.
«Vado a corrente alternata. Posso parlare a macchinetta, che ci vuole un esorcista per zittirmi, oppure stare zitto per giorni. Qualcuno mi accusa di essere un tipo malinconico, che va sempre in giro vestito di nero. Ma non è così: sono semplicemente molto consapevole della vita, di quanto dolore e difficoltà ci siano nel mondo, e che non sempre si può essere gaudenti. Pur non essendo animalista sono anche diventato vegano, per il solo motivo che non sopporto l’idea di una vita che si spegne, di contribuire a una sofferenza. Sarà che di periodi di dolore ne ho vissuti parecchi. E senza mia moglie Allegra, forse oggi non sarei qui».
Come ha reagito?
«Guardi, ho uno zio, Piero Borrotzu, un partigiano che si fece fucilare per salvare gli abitanti di Chiusola, un paesino sulle montagne liguri. Nelle mie tante vite ho subito ingiustizie profonde che per fortuna non mi son costate la vita, ma hanno formato il mio carattere. Davanti alla prepotenza rispondo con la tigna e la testardaggine. E quando scatta, lo ammetto, forse non sono il più confortevole degli avversari».
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