Più di due secoli fa il biologo francese Lamarck si chiese se i viventi avessero una qualche influenza sullo sviluppo geologico e idrologico della Terra. La sua risposta fu sorprendente: non c’è un solo centimetro della superficie del pianeta che non sia modellato da una delle infinite specie che lo popolano.

Non importa che si trovi sulla terra, in aria o in mare: ogni paesaggio terrestre è l’opera dei viventi. Le conseguenze di questa intuizione sono rivoluzionarie: non esiste nulla di naturale in natura, tutto è artificiale. Tutto nel mondo è oggetto di design, anche se questo design è opera spesso di individui appartenenti ad altre specie rispetto a quella umana. Viceversa, tutti gli animali costruiscono il proprio ambiente e non si limitano ad adattarsi a esso. Non ci facciamo caso, ma proprio come noi, qualsiasi specie animale ha la propria forma di architettura.

“Urban Animal Farm (Duomo di Milano, 2031)”, CityMaybe, progetto di Antonio Boeri e Umberto Montanari (#city_maybe) per realizzare open air local farms sul tetto di edifici pubblici e favorire un’economia a km zero.
“Urban Animal Farm (Duomo di Milano, 2031)”, CityMaybe, progetto di Antonio Boeri e Umberto Montanari (#city_maybe) per realizzare open air local farms sul tetto di edifici pubblici e favorire un’economia a km zero.

È sulla base di questa evidenza che un gruppo di ricercatori che afferiscono alla prestigiosa Architectural Association School of Architecture di Londra studiano da anni il modo per ripensare e superare l’opposizione tra lo spazio urbano – costruito e artificiale – e quello selvatico, composto di ecosistemi naturali, che definisce da secoli l’essenza di ogni città. Da due anni organizzano seminari internazionali invitando designer, ecologi, biologi, artisti e accademici a pensare alla città come laboratorio in cui animali ed esseri umani costruiscono gli uni sulla pelle degli altri degli spazi di coabitazione reciproca. Hanno chiamato questo progetto di riscrittura della città Animalesque. In questo sembrano proseguire e radicalizzare il progetto che qualche anno fa Stefano Boeri e Andrea Branzi avevano presentato per Parigi: quello di liberare 50 mila vacche e 30 mila scimmie e fare della città uno spazio di coabitazione artificiale tra le specie più diverse.

Solo in questo modo potremmo rovesciare i problemi che affaticano la vita urbana. Non ci facciamo caso, eppure le città occidentali nascono da un doppio malinteso. In primo luogo sono forme patologiche di monocoltura: ci illudiamo che basta raccogliere all’interno di un medesimo spazio individui appartenenti alla stessa specie, quella umana, perché la sopravvivenza sia possibile. Eppure, perché una città sopravviva, è necessario che vi entrino tutti gli animali e tutte le piante commestibili di cui gli abitanti si nutrono.

(Continua)

Leggete l’articolo integrale sul numero di gennaio di Vogue Italia, in edicola dal 7 gennaio