Terza puntata della “stagione sciistica” di Casa Vogue sulle montagne qua e là per il mondo. Dopo Gio Ponti e Carlo Mollino, è oggi protagonista Joe Colombo, un altro grande del progetto. Del designer milanese, un po’ come venne fatto per Mollino e il Breuil, Casa Vogue scelse di presentare in un momento meno noto, andando cioè a scoprire i primi esempi della sua attività, rimasti peraltro sulla carta. Siamo anche nel 2021, a cinquant’anni dalla scomparsa di Colombo, avvenuta (ci portiamo avanti) fulminante a luglio 1971. Siamo poi a sessanta dalla ideazione di questi progetti che Casa Vogue pubblicò nell’ottobre 2002. E per chiudere la girandola delle date, a sedici anni dalla grande mostra che il Vitra Museum e la Triennale di Milano gli dedicarono a fine 2005. È ancora in commercio il volume/catalogo dedicato, vale la pena di cercarlo per la completezza delle informazioni e la bella veste grafica. Ci troverete anche altri progetti montani, come quello per la ristrutturazione dell’Hotel Stelvio, sul celebre passo alpino. Né allora, né in seguito fu possibile pubblicarlo, ma merita di essere conosciuto per l’azzardo del corpo obliquo e asimmetrico che, come si legge nel volume, “sembrava sfidare le leggi della statica e imitare le strutture del massiccio roccioso circostante”. Ecco dunque il futuribile Joe; il profeta senza maestri che in una manciata di anni ha segnato fortemente l’idea stessa del progetto con quel suo modo mai visto di vedere il domani dandogli subito forma. Le preziose indicazioni e suggerimenti dell’architetto Ignazia Favata (che di Colombo era stata assistente e ne cura lo studio e l’heritage) aiutarono a scoprire questi “quasi” esordi. Come Mollino, anche Colombo amava e conosceva la neve e la sua montagna che, se per l’architetto torinese era la Val D’Aosta, per lui milanese era Madesimo, la Valtellina, lo Stelvio. Non a caso, entrambi erano maestri di sci. (Paolo Lavezzari)
Dalle cronache di Milano del 1961. La città ammira, ormai ultimata, la nuova meraviglia: il modernissimo e dinamico Grattacielo Pirelli che svetta, quasi a contraltare della gotica, discussa, indigesta torre Velasca. Si apre, un po’ per scommessa e senza troppi clamori, ma con buon successo di pubblico, il primo Salone del Mobile: il design italiano ha (ma ancora non lo sa) una data per celebrare in futuro il suo genetliaco. Il gallerista/collezionista Arturo Schwarz allestisce una storica mostra sul Surrealismo che tanto aveva nutrito e continuava a sollecitare l’ispirazione dei pittori più di proposta. Mentre è passato un anno da quando, alla galleria Apollinaire di Guido Le Noci, Pierre Restany ha lanciato il manifesto del “Nouveau Réalisme”, segnando di fatto una definitiva cesura con l’informale del decennio precedente, ormai rivolto a una manierata gestualità. Probabilmente a tutti questi eventi avrà guardato con interesse anche il giovane e talentoso artista (peraltro non più tale, almeno in senso stretto, visto che la sua importante esperienza pittorica si conclude nel ’58) Cesare “Joe” (si pronuncia Gioe) Colombo. Ma a inizio decennio, la sua maggiore preoccupazione è trovare clienti per il suo primo studio d’architettura appena aperto. In che modo? Semplicemente buttandosi nelle cose: la soluzione che Joe ha sempre adottato in ogni sua scelta, come documenta il curriculum quanto mai composito di questo trentenne giovanotto milanese: liceo scientifico, poi l’Accademia di Brera, il Politecnico. E intanto, la pittura e le mostre con gli amici Enrico Baj e Sergio Dangelo con i quali dà vita al Movimento Nucleare; poi il jazz amato e suonato nelle “cave” milanesi, nonché una breve, difficile esperienza alla guida dell’impresa paterna.
Di architettura Colombo ne ha già masticata parecchia durante la sua avventura pittorica, schizzando prospettive di città futuribili, e realizzando nel 1954 una serie di edicole pubbliche per la visione delle prime trasmissioni tv. Di cantieri ne ha già seguiti, ma veramente importanti non ancora: certo, un palazzo in Porta Venezia, ma soprattutto ristrutturazioni di appartamenti di amici, conoscenti, un po’ ovunque, soprattutto abitazioni in montagna. Per esempio a Madesimo, dove ha casa la famiglia e dove si cimenta regolarmente anche come maestro di sci; e in Valtellina, allo Stelvio, a Cervinia: insomma nelle mete invernali da sempre preferite dalla buona borghesia milanese, quel milieu che Colombo frequenta, dove ha amici cui propone nuovi interni, arredi mobili, luci che inventa. Lo aiutano da un lato la sua straordinaria capacità di relazione, di convincere e di autoconvincersi, dall’altro un riuscire a vedere il progetto senza ripensamenti – al più, varianti dell’idea iniziale – che trasferisce sulla carta con una linea sicura, continua. «Svitava il cappuccio alla sua penna», ha scritto Dangelo, «e il progetto nuovissimo era già lì, completo di misure e correzioni».
Impulsivo, entusiasta, Colombo riesce a disegnare in una notte tutti i progetti e i lucidi per illustrare fino nei dettagli, al mattino dopo, le sue idee a un possibile cliente incontrato la sera prima. A chi guarda il giovane Colombo quando pensa l’architettura, immagina ambienti, trova soluzioni, spesso – in quegli anni – ancora non “concluse” ma piene di futuri spunti, come mostrano le foto che lui stesso scattava, oggi unico documento di realizzazioni ormai scomparse? Nei suoi scritti Colombo non fa motto di “padri” o influenze di alcun genere; anzi, in una famosa intervista ebbe a dichiarare: «La mia famiglia era una famiglia normale, una famiglia italiana, milanese; io ero un ragazzo normale, il mio gioco era il meccano. Niente del mio ambiente mi spingeva verso una direzione o l’altra». Né dall’ambiente accademico di allora doveva aver tratto molti stimoli, considerato l’immobilismo in cui la facoltà di architettura si trovava, fatta eccezione per Ponti che in seguito molto lo lodò, con al più Nathan Rogers (BBPR) confinato in un angolo. In questa assenza di modelli si capisce immediatamente il suo rifiuto per lo stile internazionale, per un razionalismo divenuto ormai formalista. In realtà sembra piuttosto essere l’esperienza pittorica ad avere lasciato in lui i segni maggiori, ben chiari nel rifiuto per la linea retta a favore di forme organiche che riprende dai surrealisti astratti, soprattutto Matta e Tanguy. Scomparsi, anzi del tutto dimenticati, rimasti per anni in fondo a un cassetto e riemersi dall’oblio solo dopo la scomparsa di Colombo e la sistemazione del suo archivio, i progetti di queste pagine ben rappresentano le idee che il designer aveva in quel periodo, la transizione verso la piena maturità.
In quello per il rifugio Confortola allo Stelvio (1961), Colombo sembra riflettere sul taglio a diamante che Gio Ponti adottava in quegli anni, mediando l’uso che Wright faceva di determinate forme geometriche. Ma rinunciando a costruire un anonimo parallelepipedo, come in genere sono i rifugi di montagna, Colombo ne adagia la struttura sulle irregolarità del terreno con gli spioventi del tetto che riprendono quelli tipici delle baite. Unico elemento verticale è il raggrupparsi dei camini alla sommità dell’edificio, articolati in un gioco di cilindri che crea quasi un perno su cui ruota l’intero complesso. Oltre a uno studio di ristrutturazione dell’Hotel Stelvio, sempre datato 1961, ottobre, è il vasto progetto per il grande complesso residenziale denominato Casa Pasi, a Barni, Como. Nulla si sa della committenza; con ogni probabilità Colombo aveva ideato il progetto tentando di convincere il proprietario del terreno a edificarlo, sull’onda del boom della casa di vacanza che in quegli anni cambiava il paesaggio di mari e monti d’Italia. L’ambiente, la natura del luogo (l’amata montagna) guidano ancora le scelte di Colombo che, per sfruttare la scarsità di spazio edificabile, disegna un alto palazzo, solo in apparenza imparentato con i tanti deprecabili condomini-alveari-dormitori da fine settimana, che imbruttiscono le Alpi dei milanesi. Colombo qui lavora su due piani in apparenza opposti: da un lato sottolinea la verticalità delle pareti con lo straordinario gioco delle canne fumarie esterne, dall’altro lo smorza, spezzando ogni linea retta, frazionandole.
E intanto gli elementi orizzontali, come l’inedita soluzione degli ingressi a ponte indipendenti e i balconi che si inseriscono nella rientranza dell’edificio, diventano una ritmata scansione ascendente. Ancora una volta il progetto, seppure di massima, è assolutamente completo in ogni dettaglio, dalla disposizione degli ambienti degli appartamenti, agli ampi spazi per l’autorimessa completamente aperta, senza pilastri, al tetto con delicati spioventi. Nel rigore dell’architettura Colombo sembra non voler comunque rinunciare a un elemento pittorico, costituito dallo spaziato mosaico che varie aperture, feritoie a finestrelle compongono tra le canne fumarie. Il gioco delle ispirazioni rimanda a Le Corbusier, a Ronchamp, ma anche alla pittura del Mac (Movimento arte concreta), al quale Colombo fu molto vicino e in cui, non è un caso pensando ai futuri esiti nel design del nostro, militavano anche Bruno Munari ed Ettore Sottsass. Rimasti sulla carta i progetti di montagna, Colombo conquista il suo primo importante cantiere nel ’62 al mare, in Sardegna, un grande albergo che è subito un successo. Nello stesso anno realizza la luce “Acrilica” per OLuce, mettendo a frutto la sua costante ricerca di nuovi materiali. È l’inizio della sua breve, intensa avventura nel design, a volte visionaria, spesso profetica, al cen- tro della quale è sempre e comunque l’uomo.