Dopo due anni online, l’Oberhausen Short Film Festival torna alle proiezioni in sala. Le diverse sedi dei cinema di Oberhausen, dal 4 al 9 maggio, ospitano proiezioni, talk, performance e presentazioni di archivi filmici internazionali. La città è conosciuta principalmente per il festival, che ha una storia leggendaria, perché nel 1962 un gruppo di filmmaker, tra cui Alexander Kluge, Herbert Vesely, Edgar Reitz e Peter Schamoni, firmarono “Il Manifesto di Oberhausen”, testo che indicava la volontà di creare un cinema d’autore, alieno da iconografie commerciali, da realizzare a basso budget, grazie al sostegno statale. Consapevole di tale importante eredità intellettuale, il festival ha continuato, nel corso degli anni, a indagare le mutazioni, i linguaggi e la potenzialità espressive del cinema contemporaneo.
Carte Blanche, Short Film Festival Oberhausen
Ogni edizione presenta una sezione a tema. Quest’anno è la volta di Synchronize! Pan-African Film Networks che raccoglie 23 film da 10 paesi tra cui Uganda, Algeria, Cameroon e Senegal. Non una panoramica con i “best of” del cinema panafricano, quanto piuttosto la dimostrazione delle tante varietà linguistiche e produttive di quella vivace scena espressiva, con una selezione della generazione più giovane di registi africani e diasporici, la maggior parte dei quali deve ancora essere scoperta in Germania e in Europa.
Le curatrici del programma Annett Busch (Trondheim) e Marie-Hélène Gutberlet (Francoforte sul Meno), fondatrici dell’Agenzia Flying Ideas Women on Aeroplanes affermano: “L’idea del nostro programma riprende le suggestioni presenti nell’album pubblicato nel 1983 da King Sunny Adé, musicista e imprenditore nigeriano, intitolato Synchro System. Sincronizzare con e attraverso Synchro System significa fare sequenze di movimento, seguire un universo poliritmico asincrono-sincrono che si coordina simultaneamente. L’idea del Synchro System, sorta di manuale per la cooperazione e sistema di riferimento audiovisivo transfrontaliero, è stato il metodo e il punto di partenza della nostra selezione del programma. Presentiamo i film Polyglot di Amelia Umuhire, riguardante l’integrazione dei migranti in Europa, Walabok di Fatou Kandé Sendor su l’hip hop in Senegal, L’envers du décor di Paulin Soumanou Vieyra che riprende Ousmane Sembène al lavoro e il biopic di Mohamed Challouf su Tahar Cheriaâ, critico cinematografico e fondatore del Carthage Film Festival, il primo festival cinematografico panafricano.
Milja Viita, BAMBI (2022)
Programmi performativi
Altrettanto significativi sono le sezioni Celluloid Expanded Performances e Conditional Cinema. La prima è curata da Canadian film collectives, e raccoglie cinque azioni che propongono approcci performativi, utilizzando la celluloide e altri materiali inusuali. Sperimentano con processi chimici e di stampa, con il naturale decadimento del tempo e con la vulnerabilità degli agenti atmosferici della pellicola, per fornire un accesso diretto, poco costoso e eccentrico rispetto ai codificati processi di fruizione del cinema. Rappresentano inoltre due diverse generazioni di laboratori canadesi. Le cooperative cinematografiche emerse negli anni ’70 e ’80, grazie all’aiuto di finanziamenti governativi, e i laboratori contemporanei gestiti da artisti che suggeriscono a registi di esplorare nuovi modi di trasformare la pellicola.
Dora Boatemah, Street66
Conditional Cinema è invece giunto quest’anno alla sua terza e ultima edizione. Curato dall’artista e regista Mika Taanila, raccoglie opere di cinema espanso con una forte impronta Fluxus e lettrista, che mappano ambiti del cinema e della cultura cinematografica che possono essere descritti come “scenari incompiuti” o “scheletri cinematografici”. Ad esempio il film Le Camion di Marguerite Duras può essere considerato un vero e proprio manifesto di Conditional Cinema, dove la narrazione di un’enigmatica storia d’amore può essere immaginata sulla base di minimi indizi. “Il dramma umano è sovraesposto nel cinema” afferma il curatore. “Anche la natura o le macchine possono permettere lo svolgersi di drammi complessi e rappresentazioni astratte. Nel 1986, quando avevo 21 anni, ho lavorato per un breve periodo al The Nordic Arts Center sull’isola di Suomenlinna a Helsinki. Uno dei miei compiti era quello di occuparmi della proiezione dell’installazione di Dieter Roth, intitolata Diary. L’opera consisteva in dozzine di film in super 8 mm proiettati simultaneamente su una parete, dove formavano una griglia tremolante e pulsante. Era un tipo di cinema che non avevo mai visto prima. Penso che essere stata proiezionista del lavoro di Roth mi abbia mostrato le possibilità formali e linguistiche del cinema non narrativo. Ho pensato, wow, il cinema può essere molte cose, anche cubista. Nel corso delle tre diverse edizioni di Conditional Cinema ho presentato le opere di autori diversi come Vuk Ćosić, Young-Hae Chang Heavy Industries, Julien Maire, Rachel Moore, William Raban, Michael Snow, Pilvi Takala. Le installazioni filmiche di Chris Petit, Tobias Putrih, Luis Recoder & Sandra Gibson, e quest’anno il nuovo film di Manuela de Laborde, di Peter Miller, Sami van Ingen e Piibe Kolka, oltre alla video-installazione The Lock-In di Stanley Schtinter. Un film di montaggio che dura 96 ore, in cui il regista è intervenuto sui singoli episodi dell’iconica soap opera EastEnders, rimuovendo ogni scena non girata nel Queen Vic Pub. Un esempio di vitalità creativa che ha permesso a Stanley Schtinter di sopravvivere alla pandemia e allo stress dell’isolamento.”
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