C’è un bellissimo album dei Low che si intitola Things We Lost in the Fire. Le cose che abbiamo perso nel fuoco. Il nuovo disco di Miley Cyrus si intitola Plastic Hearts ma «Things I Found in the Fire» sarebbe stato un altro buon titolo. Le cose che ho ritrovato nel fuoco. Nel 2018 la vita e la musica di Miley si sono incendiate con la sua casa di Malibu, in uno di quegli apocalittici roghi che da anni sono la campanella del cambiamento climatico per i californiani. Ha perso i file, i quaderni, i computer, le canzoni di quello che doveva essere il suo nuovo album, insieme a un mucchio di altre cose. Come a volte capita agli umani disordinati, Miley ha fiducia innata nei segni esterni, quella che chiamiamo destino, così ha azzerato quasi tutto e nel 2020 ha fatto un album diverso da quello che sarebbe stato del 2018, perché lei è diversa, la vita è diversa, il fuoco è passato e anche il suo matrimonio con Liam Hemsworth non c’è più. «Ma in mezzo a quelle ceneri», ha detto sui social per presentare Plastic Hearts, «io ho ritrovato me stessa». Non c’è dubbio che Miley Cyrus si perderà di nuovo, perché la sua vita e la sua carriera sono così, un costante esercizio di smarrimento. Però ci vuole carattere a perdersi sempre senza smettere di essere interessanti. E lei ha avuto la personalità e il talento per lasciare tracce di ogni passaggio di vita (quello esibizionista, quello country, quello psichedelico) in forma di album molto ascoltati, venduti, dibattuti.
Questo non è un mondo facile per chi coltiva interessi variegati. La nostra soglia di attenzione è troppo bassa per elaborare in modo compiuto un’artista come Miley Cyrus. Il suo nuovo album è fatto come sempre a strati, richiede tempo ma il tempo chi ce l’ha? Quando andiamo dallo psicoterapeuta chiediamo una diagnosi e una soluzione, non complessità. A ogni sentire sono affibbiate un’etichetta e un meccanismo di ritenzione, so a cosa mi serve Bon Iver, so a cosa mi serve Dua Lipa e so cosa cerco se tiro fuori Tiziano Ferro, Rosalia o Perfume Genius. Ma con Miley Cyrus è complicato, il suo posto nel mondo è non avere un posto suo. Anche se un po’ di chiarezza sembra affiorare, se non altro sulle radici alle quali sta cercando di rifarsi. Sulla copertina di Plastic Hearts c’è una foto scattata da Mick Rock che è un manifesto di intenzioni: Miley Cyrus oggi (perché domani chissà) vuole essere una Debbie Harry al tempo di Instagram e chi meglio del fotografo che ci ha lasciato le foto migliori di Debbie. Nell’album c’è anche una cover live di Heart of Glass dei Blondie a ribadire. E pure una di Zombie dei Cranberries, difficile ma riuscita.
Poi siamo gente di mondo e questo è mondo del pop internazionale, con le sue esigenze e le sue economie. E quindi ecco il super singolo Prisoner, il duetto con Dua Lipa, canzone buona per le routine di palestra, per le pulizie, accompagnata da un video sguaiato e splatter, tutto un po’ da manuale di come si fanno le cose oggi, la collaborazione tra stelle, i suoni disco, una metafora semplice semplice – la prigione – un tema un po’ meno semplice, le relazioni basate sulla manipolazione psicologica. C’è Night Crawling, l’energetico duetto pieno di idealizzazione degli anni ’80 con Billy Idol, non la collaborazione più bizzarra per lei, che ha a lungo frequentato i Flaming Lips, ma comunque un incontro non banale. Miley Cyrus è una cercatrice di affinità, forse per via del fatto che è stata una piccola performer di scuola Disney, tutta compressa dentro un’ideologia totalitaria con le orecchie da topo. «L’ho conosciuto nel 2013, mi ero appena rasata la testa e i miei capelli erano color platino, sembravo davvero Billy Idol», ha detto a Zane Lowe. «È stato un modello per la mia trasformazione». La canzone, Night Crawling, suona così, come un omaggio a tutte le Miley passate e future. Le Debbie Harry che è stata, le Debbie Harry che sarà.
Poi ci sono le cose che si sono salvate dal fuoco, i pezzi che – come le cover – si smarcano dalle ideologie del pop contemporaneo. Come Angels Like You, ballata roca, emotiva, «Every word in poetry / Won’t call me by name, only ”baby”». Ogni parola di ogni poesia non mi chiamerà per nome, quanto baby, e poi, due versi dopo: «Ti ho messo in ginocchio, perché dicono che la disperazione abbia bisogno di compagnia», e quel divorzio da Hemsworth deve essere stato brutto, brutto, brutto, come un incendio che ti brucia casa. O, ancora, Never Be Me, una delle poche canzoni che facevano parte del suo progetto di album prima del rogo, una ballata a cuore spalancato, un po’ stucchevole, ma sincera, stucchevole-sincera, giusto su quel confine lì. «But if you’re looking for stable, that’ll be never be me / If you’re looking for faithful, that’ll never be me / If you’re looking for someone to be all that you need That’ll never be me». Se stai cercando la stabilità, quella non sarò io. Se stai cercando la fedeltà, quella non sarò io. Se stai cercando una che sarà tutto quello di cui avrai bisogno, quella non sarò io. Clint Eastwood in I Ponti di Madison County dice che nella vita le cose cambiano sempre, non ci si può fare niente ed è anzi una cosa da apprezzare, perché almeno il cambiamento è qualcosa su cui fare affidamento. E così Never Be Me, la canzone meno nel flusso dei gusti e delle influenze, la ballata più generica e retorica del disco, è quella che contiene più verità. Ragazzi, non fate affidamento su di me.
Foto di Mick Rock.
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