«Il compagno», un racconto per combattere l’omofobia

«Il compagno», un racconto per combattere l’omofobia

Rogo, di Donato Luigi Bruni Voci, di Sara CuperloBacio, di Massimo Basili Nonostante i vostri sguardi, di Matteo BertacciniLe parole sono pietre, di Donato Luigi Bruni

Il compagno
di Agostino Bimbo

Il primo che ho visto stanotte è stato tuo fratello Guido. C’era altra gente intorno a noi, non so dirti quanta; decine di facce sudate a sbraitarci addosso, facce che non saprei distinguere se le incontrassi ora per strada, e mani incollate al tuo petto, a strattonarti. Ma Guido è stato il primo che ho riconosciuto: ce l’ho in testa mentre corre in camera nostra; nemmeno mi saluta ed è già di là ad aprire gli armadi, i nostri cassetti. Lo vedo agitarsi sullo sfondo; deve cercarti qualcosa di decente, ripete fra sé, una giacca qualsiasi, una camicia – immaginati la sua bocca arricciata mentre fruga fra le mensole, Edo, mentre butta all’aria le tue t-shirt di Vasco e bestemmia –, qualcosa con cui vai a lavoro, urla. Spiegami tu cosa avrei dovuto fare. Sono rimasto con te e ho lasciato perdere lui – dimmi che sono stato bravo, almeno; per una volta mi sono messo da parte. Potevo prenderlo e abbaiargli due o tre cose che ho in gola da una ventina d’anni ma sono rimasto a guardarti, non sono andato a fermarlo; sono rimasto come un idiota vicino all’infermiere a ripetere a vuoto il tuo nome.

Stamattina invece c’eravamo solo io e te; e tuo padre Ernesto, rannicchiato su una sedia a strofinarsi le mani. Due, forse tre ore così. Alle sette in punto si è affacciato Dino Lucchesi – te lo ricorderai di certo, Edo –, il collega della Piaggio che si era travestito da donna alla festa di pensionamento di tuo padre: era venuto per lui ma non è stato capace di andarlo ad abbracciare, solo un’occhiata afflitta alla chiesa quasi vuota ed è uscito scuotendo la testa. Verso le otto è arrivata Giorgia; Francesca Fanti poco dopo, e quelle altre tue cugine che non vedevo da una vita. Sono rimaste accanto a Ernesto per dieci minuti, a bisbigliargli nell’orecchio fitte fitte con le frangette anni Ottanta che sobbalzavano, a rincuorare il loro zietto vedovo prima di accompagnare i bimbi a scuola. Francesca mi ha fatto un cenno severo col capo, come a dire: lo so.

Alfredo e Massimo sono arrivati appena hanno potuto. Mi sento stringere il collo – Edo, puoi immaginare – e Alfredo che mi abbraccia forte da dietro, mi ripete nell’orecchio: «Siamo qui… Siamo qui…» e singhiozza; non mi fa respirare. Gli bagno la camicia e provo a tirarlo via con le unghie, che mi deve lasciare stare, cristo, che mi soffoca e che non serve a niente, ormai. Ma lui continua: «Lo sai… Siamo qui…»; grida, con Max che gli tiene ferma la testa sudata. E intorno gente del paese, centinaia di volti attoniti che si accalcano ogni minuto che passa. Ed Ernesto che se ne sta lì con gli occhi gonfi, seduto – nella fretta aveva lasciato il bastone a casa; quello stronzo di Guido lo ha scaricato sulle scale ed è andato a sbrigare le sue faccende –, in preda a una gratitudine esausta verso chi gli stringe la mano: «Saluta la Gianna, ringraziala… Grazie d’esse’ passati… Ringrazia Sabrina, Maicol; ringrazia Dimitri…» E torna a fissare le ghirlande accatastate, quasi le stesse contando per paura di dimenticarsene qualcuna. Alfredo ci ha fatto fare una corona dalla sezione piena di spillette; quella arcobaleno l’avrà riconosciuta anche Ernesto – lo sai come ci coglionava quando la testa gli funzionava, che con la bandiera della pace ci aveva sfilato in corteo pure lui, in qualche sciopero della Cgil. L’ho fatta mettere davanti alle altre ed è ancora lì sotto, Edo, tranquillo: in prima fila come volevi tu.

Ho la schiena a pezzi, ho una fiamma che sale dal culo alle scapole e mi maciulla le costole. Mi avranno squadrato per bene, i tuoi paesani, avranno visto il cranio stempiato rivolto al pavimento, le vene bluastre sulle mani di quel vecchio che se ne sta fermo a piagnucolare da stamattina; ma chissenefrega, sai, di cosa pensano dalle tue parti… Parlano, vociano, si vomitano addosso parole su di te, magari di quand’eri un ragazzetto. Ma cosa si diranno mai in questo sottofondo continuo, perpetuo? Cosa credono di sapere di te?

Tutto, Edo; forse pensano di sapere tutto. E se ne stanno al loro posto in silenzio, a recitare la loro parte nel capolavoro di questa celebrazione voluta da tuo fratello: è tornato prima che iniziasse per dare disposizioni al sacrestano, per controllare che tutto fosse in ordine; ci hanno dato addirittura il Duomo – non te l’avevo detto, scusa: roba che per un paio di giorni spodestavi la festa patronale – tutto agghindato di viola, e Guido a girarselo da capo a fondo col suo abitino lucido, le caviglie abbrustolite a Marina di Pietrasanta e gli occhialoni scuri; a fare su e giù con tuo nipote Andrea per mano, a carezzargli la testa bionda, a fargli vedere come si fa. È quello che voleva, Edo. È stato il suo modo per darti il meglio; almeno oggi pensala così. Tua madre gli avrebbe dato ragione: finalmente una cosa fatta a modino per il mio Eduardo, avrebbe detto. E io non c’ho messo bocca.

Anzi: io non c’ero proprio. Nella predica non hanno parlato della tua vita privata, per carità. Che ti aspettavi? E che mi aspettavo, io? Guido non gli avrà detto che dormivamo insieme ogni sera, a don Coso. Né avrà fatto cenno ai litigi nella spettabile famiglia Ranucci, quarant’anni fa, prima che tu scappassi di casa come un ladro per andare a rifugiarti a Milano, prima che mi venissi a scovare in qualche festa universitaria di giurisprudenza e ti rendessi conto, pieno di turbamento, di essere come me. Prima di starci accanto nelle notti insonni sui libri, nei cento traslochi da una stanza all’altra della città, sempre in bolletta, nei mille lavoretti che abbiamo rimediato con i nostri giri di parole per spiegare ai capi e ai colleghi d’ufficio cosa significasse essere omosessuali. Prima di medicarci a vicenda il naso dopo la scazzottata con i trogloditi di turno, prima di avere il fiato sospeso nel dubbio di esserci ammalati; e prima di ammalarti sul serio, tu, di un male feroce e normale, e passare altre notti insieme fra un ciclo di chemio e quell’altro. Ma certo, io devo mettermi da parte, come mi dici sempre, vero? E forse basta il bel santino che oggi è uscito dall’omelia, basta questo ai figuranti commossi che ho davanti: figlio diligente, avvocato, fuori paese dalla giovinezza, fratello e zio presente per la famiglia, attivo nelle associazioni della Lombardia, sempre pronto a donare, a donare a chi è rimasto indietro – avranno pensato ti occupassi di beneficenza, le vecchiette della prima fila. E io non c’ero. In nessuna di quelle parole. Noi non c’eravamo. Me lo sono chiesto ogni attimo, ogni benedetto momento se e come dire qualcosa. Ma poi perché, Edo? Che ne sanno loro chi sono venuti a salutare? Che sei qui per caso pure tu, lo sappiamo; che non si decide dove finire, e ci si trova.

Perciò ho fatto una bella cosa, ascoltami: ho ricominciato da capo. Mi sono alzato a salutare tutti, in piedi, e mi sono presentato. A sessant’anni mi sono presentato per la prima volta. Tuo fratello aveva già iniziato a farfugliare sottovoce: «L’amico…», aprendo il braccio verso di me; poi è rimasto zitto, e basta, mentre io dicevo forte: «Il compagno… Il compagno, signora…» Cento, mille volte. «Il compagno… Il compagno, piacere… Il compagno». A ogni stretta di mano così, con la faccia migliore che riuscivo a trovare.

Alfredo e Max sempre appiccicati alle mie spalle. Sono venuti da Firenze anche Luigi Piomma e suo marito; Aurelia – si è messa la maglietta della manifestazione di febbraio, quella che avevamo firmato tutti, ricordi?; mi ha fatto vedere un timbro sull’avambraccio che non si è ancora scolorito –; Sandra e Nicole mano nella mano, in giacca e cravatta. Gigi Pellegrini da Pavia. Qualcuno ti manda i saluti ma non se l’è sentita. Tutti lì in fila a prendersi in faccia l’arietta della tua cara provincia toscana – posso prenderti per il culo anche oggi o devo soffrire e basta, senza fare ironia? Tutti un po’ nervosi, certo, accerchiati da tante belle parole; e da quel senso di sporco di sapere di te, e di me, quando il sapere equivale a nascondere qualcosa. Avessi sentito gli sbuffi di Alfredo – Max a tenergli il braccio con le lacrime agli occhi – che voleva salire a leggere uno dei discorsi militanti che si era preparato in macchina, fino a quando avrà ascoltato la tua vocina disperata che lo implorava: «Lascia stare, Alfre’… Lascia stare…»

Ne avremo parlato ogni sera da quando eravamo ragazzi. Mi ricordo il tuo pistolotto dell’estate scorsa in Sicilia, Edo, che non è una battaglia personale, che se uno si sente libero – e si comporta di conseguenza, certo! – ha già fatto pace con sé stesso; che per i diritti si manifesta al centro, poi la provincia segue a ruota… Quante belle parole: con la vecchiaia sei diventato il più saggio di tutti. O forse sei sempre stato così, e ti ho scelto proprio per quello: il più convenzionale degli strani; a parlare di matrimonio – non abbiamo avuto neanche il tempo di preparare le carte per il prossimo anno –, di fedeltà, di nipoti… A stare insieme tutto questo tempo. Ecco. È bastato questo a rendere felice il mio bigotto, il mio uomo d’altri tempi.

Anzi, te lo ricordi Dario come ti chiamava? La suora laica. Preciso. Mi è sembrato di vederlo, sai – non sono pazzo, te lo giuro –, mi è sembrato di vedere Dario fra i banchi, oggi. L’ho visto sbracato con la camicia aperta nei suoi trent’anni fiammanti, e due inservienti, i suoi due badanti russi a sventolargli un panno umido sulla faccia. Te lo ricordi, vero?: «‘Osa si fa quando c’avremo sessanta, settant’anni, bimbi?» Le sue frasi sbiascicate nelle nostre vacanze versiliesi, mentre tritura il ghiaccio dell’orzata e non smette mai di parlare, e parlare: «Chi sci pulisce il culo a nnoi, da vvecchi?». Non la smetteva mai; quanto mi sono mancate le sue parole sbronze, e confidenti, in tutti questi anni: «Io ve lo di’o: mi compro una bella villa in passeggiata e ci metto tre o qquattro infermierini biondi che m’aiutino; e vi c’invito, delafìa, sempre là vi voglio vede’, tutti assieme… Tutti assieme». Quanto tempo è passato: venti, venticinque anni? Il fatto è che Dario non può dircelo, com’è che si invecchia. Come ci si sta, in questa pelle laida, grigia, in queste occhiaie indelebili sul muso. Ti siamo sopravvissuti, amico mio. E chissà come sarebbe stato il nostro mondo senza l’epidemia degli anni Ottanta e dei Novanta?

Ci siamo chiesti ogni santo giorno, Edo, quanti ne avremmo avuti di amici, di storie d’amore, di fratelli perduti per sempre. Quando è andato via Dario è stato come perdere un braccio. Lo avrei voluto sempre qui con noi; lui e gli altri: Vanni, Carlone Fazi e i suoi complessi da adolescente, Leonardo Pepe – quello sì che avrebbe fatto qualcosa di buono per la causa, come si diceva all’epoca; ti ricordi come parlava, che ti faceva piangere anche leggendo la lista della spesa? Viaggi, serate, canzoni, litigi, lotte, discorsi. Ma non oggi: a cosa sarebbe servito averli accanto oggi? Lo vedi che mi metto da parte, Edo?, che non li voglio qui a tenermi la manina come fossi un bambino… Tanto cosa avrebbero detto, oggi? Come si sarebbero sentiti?

Ma una cosa la so, e te la voglio dire chiara: io come sto, oggi, lo vorresti sapere? Vaffanculo, Edo. Ecco come sto. Come un passante. Sono un passante nella tua, e nella mia vita. E vorrei urlarti che non è cambiato niente – così, per il gusto di provocarti –, che non abbiamo risolto niente, che è tutto uguale a quello che s’è trovato trent’anni fa: tu e la tua famiglia siete identici; identici, ti dico. Guido con meno capelli ma sempre lo stesso, finalmente libero dal fratello appestato che ha dato così tante mortificazioni alla mamma da farla crepare di vergogna.

Ma sai che c’è, Edo: a cosa mi servirebbe dirti che abbiamo fallito? Non ti farò incazzare se continuo a tormentarti. E non è vero niente: lo so, e lo sai anche tu – siamo stati felici; questa è la risposta a ogni domanda. È che ho una stanchezza immensa, oggi, una rabbia senza controllo. E un senso di vomito davanti allo scandalo che sto attraversando, con questa boscaglia di nani che mi scruta come uno straniero, e io che ci cammino dentro da giorni interi, secoli, senza di te. Mi hai lasciato solo. Grazie, Edo. E non mi guardi nemmeno. Sono uno sconosciuto anche per te, ormai. Con la mia fronte sudata davanti alla tua espressione vuota, alle tue mani gonfie, la giacca sgualcita come non l’avresti mai indossata. Sento di averti perso tanto tempo fa: dieci, forse cento anni prima di questo istante. E sento che non sei tu quello che ho davanti. Non sei tu. E non sono io, sotto le gocce dell’aspersorio che mi colpiscono come sputi, accerchiato da questa gente che mima il pianto, a fianco di tuo padre inconsolabile e tuo fratello pietrificato, senza espressione.

E quell’amico suo, quel coglione che si porta sempre appresso, il socio, che gioca con Andrea sul vialetto di ghiaia fuori dal portone – li sento a stento, lontano – e gli fa: «Quante fidanzatine sc’hai, oh bellino? Due o ttre?». Si mette a ridacchiare. E io non ho la forza di uscire. Lo guardo da qua dentro, Andrea, e non posso raggiungerlo; ho le gambe inchiodate al pavimento. Ascolto quello che il mondo gli rovescia addosso e non lo proteggo, Edo, ti chiedo perdono. Per oggi e per i giorni futuri, perdono: perché avrò sempre meno occasioni di incontrarlo, di parlargli, a quel miracolo dorato di tuo nipote, di raccontargli di chi era suo zio e di chi eravamo io e te, insieme. Ma ci proverò, te lo prometto. Proverò a dirgli che il bene fra due persone non conosce regole, giudizi e sensi di colpa; che va soltanto accolto, e rispettato. Tenterò di spiegargli come sia stato normale incontrarsi, scegliersi, e faticare per rimanersi accanto in tutto questo tempo. E cosa è normale che diventi lui nella sua vita: quello che gli pare, Edo. Quello. Che. Gli. Pare. A costo di non sentirsi più rivolgere la parola da nessuno, di non essere cercati, di non essere riconosciuti da nessuno come è successo a noi in tanti giorni passati e come sta succedendo ancora, a noi due, oggi.

*Queerfobia, in libreria dal 16 giugno 2021, è un progetto editoriale che mostra, attraverso racconti, poesie e immagini di odio quotidiano, l’orrore dell’omobitransfobia. In questo volume, Giorgio Ghibaudo e Gianluca Polastri compongono un mosaico di quarantadue storie: storie che diventano l’urlo, feroce e dolce, di tutti gli esseri umani derubati della loro stessa dignità da atti di violenza e ignoranza perpetrati troppo a lungo.

Il progetto grafico è a cura di Alessio Villotti.

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