L’uomo che teneva l’astronave

L’uomo che teneva l’astronave
L’uomo che teneva l’astronave
L’uomo che teneva l’astronave
L’uomo che teneva l’astronave
L’uomo che teneva l’astronave
L’uomo che teneva l’astronave
L’uomo che teneva l’astronave

Questo articolo è pubblicato sul numero 51 di Vanity Fair in edicola fino al 22 dicembre 2020

C’era una volta un palazzo giallo. Il palazzo era stato tale – mattoni, intonaco, finestre – per moltissimi anni e nessuno ci badava più di tanto. Il suo risibile valore architettonico lo appiattiva alla sua funzione base, quella di contenere vite; le sue, forse, un po’ più consumate e ammaccate della media. Poi un giorno la sua grande porta d’ingresso a vetri venne chiusa a doppia mandata, fu allora che il palazzo sradicò le sue fondamenta e rivelò al mondo la sua natura di navicella spaziale, una sfera di metallo con oblò imbullonati dietro cui quelle vite consumate dovevano andare avanti fingendosi aliene, quando invece erano disperatamente umane.
Tra quelle vite la più giovane apparteneva a un donna molto amata. Suo marito, fuori di lì, lontano da lei, non si dava pace. Erano sei anni, da quando lei era entrata nel palazzo, che si dannava per tenere un filo che li unisse. Quando li chiusero, lei dentro lui fuori, ebbe paura di perderla per sempre. Cosa può un filo contro i reattori, accesi, di una navicella spaziale? Eppure ogni giorno si svegliava e si ritrovava in mano la matassa delle loro vite, integra e tesa. Poi venne la neve e l’aria delle feste che a lui portava il dolore dei brutti ricordi e pensò che, poiché questo Natale non avrebbe potuto abbracciare sua moglie, doveva trovare l’ennesimo modo per impedire che l’astronave partisse, e addobbò il filo che li univa con le palline di Natale.

Teresio ha vissuto tutta la sua vita dentro un’edicola: lui il freddo non lo sente nemmeno. Si ricorda tutte le oscillazioni di prezzo e le copertine della storia di questo settimanale, sul quale non avrebbe mai immaginato di finire. I giornali sono stati la sua vita, fino al 17 febbraio scorso, quando ha venduto l’ultima delle cinque edicole che aveva. Qualche soldo e una straordinaria resistenza alle intemperie sono l’eredità che gli hanno lasciato tutti quegli anni in mezzo alla carta e ora gli vengono buoni entrambi: il denaro perché gli regala tempo, la tempra perché gli permette di stare fuori – almeno lì sì – dalla casa di riposo di Saronno dove da 6 anni è ricoverata sua moglie Daniela. Ci è entrata che aveva solo 56 anni, in conseguenza degli esiti devastanti di un ictus che l’ha colpita la notte della vigilia di Natale del 2013. Daniela e Teresio avevano deciso qualche mese prima di separarsi, lei era a casa di sua madre per le feste e quella sera, augurandole la buonanotte, le aveva detto di avere un gran mal di testa. Il giorno dopo stava malissimo: all’ospedale, dove l’aveva portata di corsa il suo quasi ex marito, l’avevano data talmente per persa che era stato chiamato anche il prete per l’estrema unzione.

E invece Daniela ce l’aveva fatta: senza più la memoria delle parole, con enormi difficoltà motorie, il volto asimmetrico, la mano destra incapace di fare, era riuscita a recuperare pezzi di esistenza e di gioia, compatibilmente con tutto il resto. «Era diventata una donna profondamente diversa, non solo nel suo aspetto, anche dentro. Sorprendentemente una donna migliore, capace di dare come prima non aveva mai fatto. Nel primo centro di riabilitazione in cui ha passato i mesi dopo la dimissione dall’ospedale, la responsabile mi diceva: me la lasci ancora un po’, la sua presenza fa tanto bene agli altri», racconta Teresio. Il ritorno alla vita dopo un trauma come quello che ha subito il corpo di Daniela è un’ascesa in cui la vetta non arriva mai: provare a salire è già un traguardo, trovare un campo base da chiamare casa un successo. Daniela l’aveva trovato nel palazzo giallo di Saronno: si chiama Focris, è gestito da una onlus che ha lo stesso nome. Tra lei e «la Maria» passano 41 anni di differenza, ma sono proprio loro due, l’ospite più giovane e quella più vecchia, ad animare le giornate del centinaio di persone che risiedono lì.

Daniela la chiamano tutti Titti, perché «Titti» è la parola che dice più spesso, aggiungendo, a volte «tutti e due». Teresio l’ha portata ovunque per cercare di capire perché, tra milioni di altri, il suo cervello avesse scelto proprio di ricordare quei vocaboli, «ma mi hanno detto che non c’è nessun senso da trovare. E anche di lasciare perdere con la logopedia: Daniela non migliorerà. Se la sollecito e la imbecco, sa tirare fuori dalla memoria anche poco altro. Se le dico ti voglio bene lei dice lo stesso, se dico testa di, lei risponde, ridendo, cazzo. Forse è una cosa sciocca questa delle parolacce, ma ricorda a me e a lei che non è una bambina che non le può dire». Fino a fine febbraio Teresio e Daniela passavano insieme quasi tutti i pomeriggi, poi è arrivata la pandemia e la casa di riposo, come tutte le altre in Italia, ha vietato le visite. La navicella, gli alieni, i loro sguardi alla finestra. «Quello che è successo dopo è stato difficile per tutti. Ospiti e operatori», dice Laura Biella, caposala della struttura. «Ci sono stati tanti sentimenti insieme: la loro solitudine, le nostre paure, la strana sensazione di dover diventare figli, mogli e mariti ogni giorno e anche nell’ultimo dei giorni, quando eravamo gli unici a poter tenere la mano a chi si ammalava, e moriva».

Appena Teresio non ha più avuto i suoi pomeriggi con Daniela si è inventato mille modi per girarle se non vicino, almeno intorno. «Mi sono offerto per trasportare la biancheria sporca di tutti gli ospiti in lavanderia, consegnavo e andavo a ritirare i tamponi che venivano fatti dentro la struttura al laboratorio di analisi. Ho chiamato un amico vivaista e mi sono fatto mandare centinaia di tulipani, per tirare un po’ su il morale a tutti». L’entusiasmo di Teresio è un sasso nello stagno, da cui nascono cerchi concentrici di solidarietà. Tanto che a un certo punto alla casa di cura arriva così tanta roba che non sanno più dove metterla. Intanto lui. per sdebitarsi con chi lo aveva aiutato, si inventa «la patata della salute», un banchetto che vende, appunto, patate, il cui ricavato viene utilizzato per comprare cibo per una mensa per persone bisognose. «Abbiamo ringraziato chi aveva dato, dando a nostra volta». Perché ha fatto tutto questo?, gli chiedo. Perché loro, dentro, sapessero che non li avevamo dimenticati.

Quando a luglio hanno riaperto le visite Teresio però non è andato da Daniela. «Non avrebbe capito perché non la potevo abbracciare, al di qua del plexiglas. Io non voglio vederla per fare del bene a me, voglio farlo perché stia meglio lei». Alice, che lavora come oss nella struttura, conferma che certe barriere fisiche sono un problema per le persone con le capacità cognitive compromesse. «Anche le stanze degli abbracci, una iniziativa bellissima, non sono per tutti. Tutta quella plastica addosso c’è chi non la prende bene». Poi comunque a ottobre hanno richiuso tutto di nuovo e non c’è stato nemmeno più tempo di chiedersi se fosse la decisione migliore oppure no. «Ci facciamo tante videochiamate e le faccio sempre avere i suoi pennarelli». Daniela, che non aveva mai preso un colore in mano in vita sua, dopo l’ictus realizza immensi disegni, grandi come mandala. «La sua parte danneggiata del cervello è quella sinistra. Mi hanno spiegato che l’emisfero destro presiede alla creatività e lei, per compensare, deve averlo sviluppato tantissimo». Il marito, all’inizio, le aveva portato i prestampati per bambini, per vedere se riuscisse a stare dentro i bordi con l’unica mano buona che le era rimasta, la sinistra. E lei, senza nessuno sforzo, riempiva gli spazi con colori non solo stesi alla perfezione, ma anche abbinati con un gusto perfetto. Così i soggetti da colorare si sono fatti via via più complessi, i toni più precisi. Adesso Daniela dispone sempre di 500 pennarelli di colori diversi, che scarta al primo accenno di minima défaillance. E che suo marito allora regala alla vicina scuola materna, «perché di solito funzionano ancora benissimo».

Il giorno in cui conosco Teresio, lo trovo davanti alla casa di cura, intento a controllare che l’ultima delle sue iniziative funzioni, letteralmente. Si è ricordato dei lucchetti di Ponte Milvio, a Roma, e ha pensato che si potesse fare un po’ la stessa cosa con le palline di Natale: invitare ognuno ad appenderne una, con il proprio nome scritto sopra, alla cancellata della casa di riposo per dare un senso di festa anche a chi, quest’anno, non potrà uscire, né vedere nessuno. Quando arrivo è lì, che controlla che il filo da pesca con cui sono state legate le prime palline – lo ha messo a disposizione lui, insieme a forbici e pennarello – tenga. Sono ancora una qua e una là, ma lui è contento: «Come sempre ho rotto i coglioni a tutti, ne arriveranno un bel po’». Mi accorgo che è molto improbabile che, dalle finestre, gli ospiti possano vedere le decorazioni, ma poi capisco che non è quello il senso. Il senso è farci fare il gesto di portarle e appenderle, e che poi siano visibili per noi, e che ci ricordino che quel luogo, ancorché inaccessibile, è pieno di dignità, di vite e di vita. Forse così l’astronave non volerà via.

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